A Palazzo Chigi siede una donna, ma il potere è ancora una cosa da uomini. Concedere maggiore spazio alle donne o reinventare da zero la leadership?
Il potere è maschio, anzi maschilista. Dati alla mano: lo dice la nuova edizione del dossier “Sesso è potere”, curato dalle associazioni info.nodes e onData.
Le due associazioni hanno utilizzato open data ma anche dati raccolti manualmente, per disegnare una mappa di come il potere sia distribuito tra i generi, con un focus sui settori economico, mediatico e politico.
La poltrona più importante del consiglio di amministrazione è occupata da un uomo. Sono solo 5 le amministratrici delegate nelle maggiori 100 aziende italiane. In 8 casi su 10 la direzione dei tg nazionali è affidata a un uomo. Solo 5 quotidiani nazionali sono diretti da donne e, per giunta, in tre casi è la stessa, Agnese Pini, che dirige Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno. Da Palazzo Chigi, in cui siede la prima donna meno femminista della storia repubblicana, ai comuni il meccanismo fallocentrico è il medesimo. Su 121.231 cittadini e cittadine che ricoprono un ruolo elettivo a livello comunale o regionale gli uomini rappresentano il 66,19%. Inoltre, su 7452 comuni censiti sul portale del ministero degli Interni, solo nel 15% dei casi è una donna a vestire la fascia tricolore da sindaca.
I numeri rendono tangibile lo squilibrio di genere nell’esercizio del potere. Una situazione che era già, a naso, facilmente constatabile è cristallizzata così nella fredda incontrovertibilità delle cifre e delle percentuali.
Spazi rubati o poco concessi: virilità e leadership
Il potere non è solo maschio nel senso stretto di esser detenuto da fallo-dotati, ma è, più in generale, pensato, narrato e usato in ottica maschilista e patriarcale. Al potere sta, ad oggi, la forza, la prevaricazione, l’arroganza e la solitudine: elementi che afferiscono per lo più al maschile – nel suo senso antropologico e non biologico – cui anche la controparte femminile si è rifatta per ottenere qualche pezzo di poltrona. Per un pregiudizio difficilmente sradicabile, se non con estrema pazienza e fatica, alle donne non vengono concesse eguali opportunità e, anche giunte a un ruolo di vertice, vengono investite dal disappunto e dal sospetto, nell’idea che quello spazio sia occupato abusivamente.
Il silenziamento e l’esclusione delle donne è una di quelle questioni secolari, ma così spinosa che, se irrompe prepotentemente in un dibattito, si liquida rapidamente per poi scadere nella conta delle donne di destra ad aver ricoperto o a ricoprire incarichi istituzionali: esempi chiari di come solo un tipo di potere – intransigente e spietato – sia stato portato avanti.
Per ridimensionare uno spazio così sproporzionato non occorre infilare polemicamente numeri, nomi o tessere rosa poiché lo sformerebbe ancora di più creando cattive logiche di schieramento. Servono altre parole, altre prospettive: ripensare la leadership e il suo linguaggio per un futuro antiautoritario, meno aggressivo, meno rabbioso. Un cambio che dovrà passare, inoltre, dal ripensamento della virilità e del genere tutto.