Secondo Delrio, padre della riforma fallita, il centrodestra vorrebbe aprire la strada al presidenzialismo, ma sarebbe più utile ascoltare il grido d’allarme di chi si trova a gestire degli enti fantasma
Il centrodestra vuole il ritorno all’elezione diretta delle Province, drasticamente ridimensionate e svuotate di poteri dalla riforma Delrio di nove anni fa. La maggioranza è convinta che sia necessario rimettere in piedi con poteri effettivi enti che in passato avevano, specie in alcune regioni, un ruolo fondamentale di coordinamento del territorio, che sono ancora previste dalla Costituzione e mantengono le competenze sull’edilizia scolastica, sulla tutela e valorizzazione dell’ambiente, sui trasporti e sulle strade provinciali. In effetti, cancellare le Province lasciandole nel limbo è stata una scelta senza senso, perché un problema di funzionamento istituzionale non si risolve con una catena di soluzioni pasticciate, com’è invece avvenuto in Italia. In realtà l’abolizione delle province è stata a lungo un tormentone politico bipartisan, visto che compariva nei programmi elettorali di quasi tutti i partiti, ma fu la famosa lettera di “messa in mora” dell’Italia inviata da Trichet e Draghi nell’estate del 2011 a farla accelerare, tanto che il governo Monti la inserì addirittura nel provvedimento sulla spending review, e fu il primo caso di taglio per decreto di un organo costituzionale: azzerate tutte le giunte provinciali, restavano solo i presidenti, e in pochi mesi si sarebbero dovute formare improbabili ed enormi macro-province del tutto ingestibili.
La legge Delrio
La legge Delrio del 2014 fece addirittura peggio, trasformando le province in enti di secondo livello, senza elezione diretta, trasferendo alcune competenze alle regioni e riducendone il numero da 107 a 97, con le altre dieci ribattezzate pomposamente città metropolitane. Il risultato? Sono stati drasticamente ridotti personale (20 mila dipendenti in meno) e risorse (5,2 miliardi in meno nei primi quattro anni), ma sono rimaste funzioni fondamentali come la pianificazione territoriale, le strade, l’edilizia scolastica, il trasporto pubblico e privato. Un caos normativo aggravato dalla bocciatura, nel 2016, della riforma costituzionale che aboliva effettivamente le province e riduceva le competenze legislative delle regioni. La legge Delrio, insomma, ha trasformato le province in tante anatre zoppe, enti in agonia che infatti hanno collezionato dissesti finanziari a catena, tanto che nelle successive leggi di bilancio sono state previste nuove risorse e la riapertura delle assunzioni a tempo indeterminato.
La boccata d’aria del Pnrr
Riaprire il dossier Province non è dunque un’operazione propagandistica. Come ha detto stamani Delrio in un’intervista al Corriere della sera, ma un’esigenza imposta dalla realtà. Secondo il padre della riforma fallita, il centrodestra vorrebbe aprire così, surrettiziamente, la strada al presidenzialismo, ma invece di proiettarsi sui massimi sistemi, mischiando le mele con le pere, sarebbe più utile ascoltare il grido d’allarme di tanti amministratori che si trovano a gestire degli enti fantasma. O le Province si aboliscono davvero, trasferendone in toto le competenze, o gli si restituiscono gli strumenti indispensabili per funzionare. Servono le risorse necessarie per mettere in sicurezza strade, scuole e quasi seimila ponti. Una boccata d’ossigeno arriverà intanto dal Pnrr, le cui missioni prevedono l’intervento diretto delle Province sull’edilizia scolastica delle superiori e sulla viabilità delle aree interne Inoltre le Province potranno essere coinvolte in missioni di interesse come quelle dedicate alla cultura, allo sport, al contrasto del dissesto idrogeologico e all’economia circolare dei rifiuti. Ma per farlo al meglio dovranno tornare ad essere pienamente operative.