I test regionali dicono burrasca a sinistra, da stabile a variabile sul centrodestra ma il sole splende sul cielo di Forza Italia

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Sardegna, Abruzzo e Basilicata regalano amarezze al M5S e alla Lega. Il Pd sfiora la linea di galleggiamento. Fratelli d’Italia sempre in uptrend, ma la corsa si è arrestata. La vera sorpresa è Forza Italia: in crescita diffusa e costante nelle tre Regioni. Calenda e Renzi sono due movimenti rapsodici, come i loro leader. Azione e Italia Viva sparite in Sardegna, risorte in Basilicata. Ma è vera gloria?

Una curiosità: i candidati di centrodestra in Abruzzo e Basilicata, cioè Marsili e Bardi, hanno avuto meno consensi della somma delle liste. Niente di clamoroso, sia chiaro, si parla di 1-1,3 punti percentuali in meno. Esattamente opposto il risultato dei candidati di centrosinistra che hanno ottenuto consensi superiori alla somma dei voti delle liste che li sostenevano. Anche per loro, si parla di 1-1,5 punti percentuali in più. Pinzillacchere, avrebbe commentato Totò. Dietro quelle inezie, però, si intuisce uno scenario nient’affatto rassicurante per Pd e M5S. I due partiti, competitori anche quando sono alleati, non hanno la forza di trascinamento della destra. La forza dei candidati scelti non basta da sola a colmare il gap con la debolezza dei partiti di riferimento.

     Anche se il voto regionale segue dinamiche proprie, non sempre coincidenti con la tendenza nazionale in cui altri fattori entrano in gioco, l’esito delle tre tornate elettorali di questo inizio d’anno ha fornito alcune indicazioni. Detto che sarebbe sbagliato o fuori luogo proiettarle sul piano nazionale, non sono da sottovalutare alcune costanti che si sono ripetute nelle tre contese elettorali.

PD: Elly Schlein ha faticato molto a tenere la barra dritta. La vittoria in Sardegna, con la candidata grillina Alessandra Todde, ha fatto del Pd il primo partito dell’Isola, primo anche senza l’8% confiscato da Renato Soru che si presentava candidato governatore. Il M5S è crollato letteralmente, ha dimezzato i voti pur esprimendo la candidata presidente. Il paradosso è che là liste del centrodestra hanno preso più voti di quelle della sinistra. Il voto disgiunto, cioè la possibilità di votare per un candidato di uno schieramento e per un partito dello schieramento avversario, ha confuso le acque. La Lega doveva vendicarsi per la mancata conferma di Solinas, ma ha pagato un prezzo esorbitante e il responso delle urne è stato impietoso. Ancora più tormentato l’accordo in Basilicata: due candidati bruciati prima di trovare Marrese. Il quale è riuscito nell’impresa di prendere più voti della somma delle liste. Conferma allarmante della crisi che sta travolgendo Conte.

M5S: Giuseppe Conte guida i resti, parafrasando il generale Armando Diaz, di quello che fu il più potente esercito elettorale nel 2019. È vero che i grillini non danno il meglio nel voto amministrativo e locale, ma tre débâcles di seguito con perdite che vanno dal 30 al 50% dei consensi rispetto alle politiche, sono il sisintomi qualcosa che si rotto nel rapporto con l’elettorato. Conte è l’eterna incompiuta. Evita di farsi incasellare in un generico campo largo, non ama definirsi di sinistra ma preferisce essere battezzato con “progressista”. Le etichette non bastano più ad arginare l’emorragia inarrestabile di consensi.

FD’I: è il primo partito in Abruzzo, il primo in Basilicata, il secondo in Sardegna a una manciata di voti dal Pd. Tutto bene dunque? Sì e no. Meloni ha smesso da qualche tempo di alzare l’asticella delle aspettative. Il 30% alle europee, fino a qualche settimana fa ritenuto un traguardo abbordabile, si allontana a mano a mano che si avvicina il 9 giugno. Il partito è in salute, ma l’uptrend è svanito. Il passaggio dalla crescita al ristagno è stato graduale, una sorta di lenta erosione da attribuire secondo qualche osservatore a una naturale fase di consolidamento, secondo altri invece segnalerebbe un affievolimento fisiologico dopo un anno e mezzo di governo.

FORZA ITALIA: sul partito che fu di Berlusconi, ancora vivo con il nome nel simbolo, splende il sole come nessuno avrebbe osato immaginare. Sardegna, Abruzzo e Basilicata, con Vito Bardi riconfermato, sono state fertili di consensi. Tajani ha sopravanzato la Lega nelle tre Regioni e questo costituisce un fatto rilevante negli equilibri della maggioranza. Se anche il voto europeo dovesse confermare Forza Italia avanti alla Lega, per Giorgia Meloni ci sarebbe qualche grattacapo in più nel momento in cui dovesse decidersi al rimpasto di governo. Con quell’aria fra il trasecolato e il sorpreso, Antonio Tajani ha collocato il partito in quell’angolo lasciato scoperto da Salvini e Meloni: è un solido europeista, come non possono esserlo gli altri due; a entrature giuste nelle capitali europee che contano; ha un crescendo di distinguo rispetto a Salvini, dall’Ucraina alle alleanze europee. Una volta individuata la scia giusta sul piano europeo, sa tenerla senza difficoltà.

LEGA: Salvini è entrato in un girone infernale. Registra sconfitte ovunque si voti, e adesso rischia l’osso del collo con il candidato sindaco al Comune di Bari. Per quanto stalinista ami definirsi il suo partito, i mugugni sono in aumento. Il vecchio capo è tornato a far sentire la sua voce, per quanto indebolita dalla malattia e dalla lontananza dal campo di battaglia. Poi, l’idea di affrontare le elezioni europee con quel manifesto 6×4 con la scritta “+Italia -Europa” non poteva essere più infelice. In tutta fretta, sta tentando di ripulire l’immagine del sovranista trinariciuto. Dopo la convention di fine gennaio con gli estremismi di mezza Europa, con il video messaggio di Le Pen che stuzzicava di brutto Meloni, nel volgere di pochi giorni Salvini ha virato di 180 gradi, niente più Alternative für Deutschland, a malapena saluta Orban. Con i consensi è crollata ogni residua credibilità del personaggio.

CALENDA&RENZI: fino a un anno fa si poteva davvero scrivere come il nome di una ditta commerciale prima dei litigi furibondi e il lancio di piatti. Una vera saga degna della guerra dei Roses, anche se i due non si sono mai amati come i coniugi impersonati da Michael Douglas e Katleen Turner. Ricordano un po’ la bomba N alla quale lavorava Giscard d’Estaing alla fine degli anni Settanta. Era composta di due elementi chimici, innocui se usati separatamente ma micidiali una volta miscelati. Così è stato per Matteo e Carlo. In Basilicata sono risorti dalle ceneri della Sardegna. Difficile dire quanto dei consensi lucani sia farina del loro sacco. Per dire: Azione al 7,5% sarebbe stato pensabile senza quel grande controllore di voti che è Pittella. I malevoli dicono: 1-1,5% è di Calenda, e 6% buono è di Pittella. Stesso discorso vale per Renzi. Davvero Italia Viva avrebbe fatto il 7% senza Chiorazzo. Se è vera gloria lo vedremo presto quando a giugno si voterà in Piemonte e, soprattutto, per il Parlamento europeo.

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