Allegri ha fallito, la società bianconera si è persa. Un cammino nella massima competizione europea vergognoso. La miseria di tre punti in un girone abbordabile e retrocessione in Europa League, dalla cui eventuale vittoria finale passerà il confine fra dignità perduta e trampolino per il futuro
Sono arrivati i definitivi verdetti della Champions League e, chiarite le posizioni di classifica di ogni girone, giunge il tempo dei bilanci. Le italiane hanno regalato grandi soddisfazioni al calcio peninsulare. L’Inter ha eliminato il Barcellona, piazzandosi seconda dietro il Bayern Monaco, ed ottenendo una qualificazione insperata in un girone di ferro, il Milan ha ottenuto l’accesso agli ottavi di Champions che mancavano dal 2014 schiantando Salisburgo e Dinamo Zagabria, mentre il Napoli ha incantato l’Europa arrivando primo in un girone composto da Liverpool e Ajax, segnando la bellezza di dieci gol fra andata e ritorno agli olandesi e schiantando i Reds nell’esordio casalingo del Maradona.
A tutte queste note liete, atte a sostenere la convinzione di un movimento calcistico italiano ancora vivo, si affianca, tuttavia, la delusione per la clamorosa eliminazione della Juventus. Quella che è stata la squadra italiana più rappresentativa del calcio italiano nella massima competizione europea per club, fatta eccezione per la storica semifinale centrata dalla Roma nel 2018, sembra essere ormai una parente lontana della formazione bianconera capace di piegare i top club europei per un quinquennio, salvo scontrarsi con l’iceberg insormontabile delle finali perse, una sorta di marchio di fabbrica della storia juventina nella massima competizione europea.
Il campo ha parlato e lui, da giudice supremo qual è, non permette l’utilizzo di retorica banale e giustificazioni di qualsivoglia genere. Il campo ha emesso il suo verdetto e questo, a dispetto di chi vorrebbe nascondere la polvere sotto il tappeto, recita un copione chiarissimo, cioè che la Juventus di Max Allegri, nonostante un girone tutto fuorché proibitivo, ha totalizzato la misera somma di tre punti e agganciato il treno per il terzo posto, quindi retrocessione in Europa League, solo perché il Maccabi Haifa, formazione israeliana di basso cabotaggio, ha fatto decisamente peggio subendo ben sei reti nell’ultima gara contro il Benfica.
Gli infortuni, tanti, hanno certamente pesato sul percorso bianconero in Champions, ma non può essere una scusa in grado di alleviare il fastidio e la vergogna provate dai tifosi juventini nel vedere la propria squadra ridotta in cenere dal Benfica di Schmidt, al Da Luz, e ridicolizzata dal Maccabi nella sfida di Tel-Aviv.
Tre punti, tre miseri punti, in un girone che solo qualche anno fa, forse già lo scorso anno, avrebbero permesso alla formazione bianconera di chiudere il discorso di qualificazione in tre giornate, salvo poi concentrarsi sul campionato. Un ridimensionamento innegabile per chiunque non voglia far finta di niente, innegabile al netto degli infortuni e dell’infermeria sempre piena, involuzione tecnica, tattica, ma soprattutto mentale, che ha impedito ad una rosa comunque imbottita di calciatori esperti come Alex Sandro, Bonucci, Cuadrado, Paredes, Rabiot e Locatelli, di evitare un’eliminazione che probabilmente non è mai stata in discussione, col Benfica già corsaro nel match di andata all’Allianz Stadium.
A chi attribuire la colpa? Si sa, a Torino in queste settimane il capro espiatorio, il padre di tutti i mali, sembra essere stato individuato in Max Allegri, il cui ritorno non ha mai totalmente convinto la tifoseria piemontese, da anni divisa nell’ormai celebre sfida, oseremmo dire faida religiosa, fra la corrente dei “giochisti”, critici della prima Juve targata Allegri nonostante questa dominasse in Patria, e quella dei “pragmatici”, da sempre attaccati all’idea di calcio allegriana basata sulla teoria ippica del “Corto muso”.
Da queste parti, nonostante siano state ammesse e non rifiutate le responsabilità del tecnico livornese, si è sempre cercato di fornire una lettura più ampia della delicata situazione bianconera. Allegri, chiaramente, non è esente da colpe, l’involuzione tattica e l’incapacità di proporre alternative di gioco all’ormai collaudato schema della solidità difensiva e del cinismo in attacco, sono sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, il crollo bianconero in campionato e in Europa, non è cosa nuova ed è, a detta nostra, attribuibile al tentativo di cambiare la filosofia del club dall’interno, un progetto iniziato nel 2019 all’indomani dell’eliminazione subita contro l’Ajax che, a detta dei soloni del pallone, aveva surclassato la formazione bianconera attraverso il bel gioco, annientando le convinzioni di coloro i quali avevano visto in Allegri un profeta del calcio solido ed efficace, capace di raggiungere due finali di Champions League in tre anni.
Già con Sarri, non a caso, si notarono le prime avvisaglie di scollamento fra la squadra e la vittoria. Un campionato vinto all’ombra del Covid, fermato quando la Juve probabilmente stava cominciando ad assimilare gli schemi del vulcanico tecnico di Figline, mai seguito fino in fondo dallo spogliatoio e silurato dopo una brutta eliminazione maturata agli ottavi di Champions League contro il modesto Lione di Rudi Garcia. Una stagione, quella successiva, disputata sotto la guida tecnica dell’esordiente Andrea Pirlo, chiamato a fungere da traghettatore e mai capace di esaltare realmente le caratteristiche della rosa juventina, ai tempi ancora legata alla carismatica figura di Cristiano Ronaldo. Quarto posto, ottenuto solo grazie al suicidio del Napoli, e due trofei vinti in una stagione, come la Coppa Italia e la Supercoppa italiana, avevano comunque nascosto la polvere sotto il tappeto, rendendo discretamente positivo un bilancio che, per cifre spese sul mercato a tradizione storica del club, ha comunque rappresentato una sorta di debacle.
Va così che, nonostante il ritorno di Allegri e la filosofia pragmatica del calcio all’italiana, la formazione bianconera in due anni sembra non essere riuscita a ritrovare se stessa, complice una società troppo approssimativa sul mercato, fatto di occasioni come quelle di Pogba e Di Maria, piuttosto che programmazione, di insicurezza nei momenti decisivi della stagione e confusione in seno ai vertici della piramide politica del club, logorata da guerre intestine e visioni diverse del calcio, su tutte quella di Nedved da sempre schierato contro Allegri e la sua filosofia sportiva.
Una retrocessione in Europa che per blasone e obiettivi stagionali viene accolta a Torino come una vera e propria disfatta. Disfatta, tuttavia, dalla quale Allegri e i suoi giocatori avranno il dovere di provare a ricavare una soddisfazione. L’eventuale vittoria di un trofeo europeo, di seconda fascia ma pur sempre storico e complicato da conquistare, garantirebbe in primis la matematica certezza di partecipazione alla prossima Champions League che, visto l’incerto percorso in campionato, rimane in forte discussione, nonché la possibilità di alzare al cielo un trofeo continentale, cosa che ai bianconeri manca dal lontano 1996.
L’imperativo, in casa Juve, dopo il fallimento nella massima competizione europea, sarà quello di rialzarsi e recuperare la dignità perduta dopo un biennio Champions così magro e desolante, mentre per Allegri la corsa in Europa League potrà significare solo una cosa: conquistarsi la riconferma che, mai come in queste settimane, sembra essere in forte discussione.