La lotta alla precarietà non si vince con gli slogan di chi pretende o i contratti a tempo indeterminato, ma rafforza il lavoro in nero
Il decreto dignità voluto dai grillini modificò il jobs-act di Renzi introducendo nuove regole per i contratti a tempo determinato e accorciandoli da 36 a 24 mesi massimi, ma poi permetteva il rinnovo per altri 12 mesi solo in presenza di alcune causali senza le quali il contratto sarebbe stato trasformato in assunzione definitiva. Ma si trattò di uno strumento ideologico che fallì l’obiettivo di combattere la precarietà del lavoro, perché mise in moto un meccanismo che permetteva ai datori di lavoro, allo scadere dei 24 mesi, di assumere un nuovo dipendente a tempo determinato. E questo accadeva non sempre per la cattiva volontà degli imprenditori, ma perché ci sono aziende che in un contratto tra i 12 e i 24 mesi non hanno la possibilità di mettere la causale, in quanto hanno un lavoro stagionale particolarmente complicato. Un ragionamento che vale anche per i voucher, che la sinistra ancora oggi ostracizza, ma quando furono cancellati moltissime imprese lasciarono a casa decine di migliaia di giovani costretti a lavorare in nero. La lotta alla precarietà, insomma, non si vince con gli slogan di chi pretende o i contratti a tempo indeterminato o nulla, perché è il modo peggiore per rafforzare il triste primato italiano in Europa: quello, appunto, del lavoro nero.
Ebbene: il decreto Lavoro che il governo approverà domani rimette in discussione questo dogma, sfidando la sinistra che già parla di “nuova deregulation che favorisce la precarietà”. Le nuove norme, in realtà, sono un volano per immettere i giovani nel mercato del lavoro attraverso incentivi fiscali e previdenziali alle aziende che li assumono. In questa prospettiva, la demonizzazione dei voucher appare solo una vecchia arma propagandistica, soprattutto da parte del Pd.
I buoni lavoro o voucher nacquero nel 2003 con la riforma Biagi come sistema di pagamento da utilizzare per il lavoro occasionale di tipo accessorio. La riforma ha prodotto negli anni effetti positivi soprattutto sulle attività di cura e di assistenza, e di breve durata come baby sitter, badanti, lezioni private e giardinaggio, da sempre lavori sommersi. L’obiettivo dunque fu proprio quello di far emergere il lavoro nero.
Il governo Meloni li ha reintrodotti alzando da 5mila a 10mila euro l’importo annuale dei compensi in dote agli utilizzatori – imprese e famiglie – correggendo i rigidi paletti imposti dal decreto dignità, e ora la soglia di utilizzo salirà a 15 mila euro. Nella nuova versione sono previsti controlli molto più rigidi per evitarne l’utilizzo indiscriminato ed evitare le altre storture che ne avevano caratterizzato l’impiego.
I voucher si sono rivelati utilissimi soprattutto nei settori cruciali di agricoltura e turismo: durante il Covid le organizzazioni agricole ne avevano inutilmente chiesto la reintroduzione almeno temporanea, nel periodo della raccolta della frutta e della manutenzione dei vigneti, con gli stagionali stranieri bloccati dai lockdown e un picco di richieste che superava le 200mila unità. Stesso discorso per hotel, ristorazione e bar nelle stagioni estive, quando il Covid concedeva una tregua e la carenza di personale costringeva gli operatori a limitare l’offerta. Non a caso Federagricoltura e Federturismo hanno accolto con estremo favore le semplificazioni previste nell’ultima legge di bilancio.
La decisione di rimettere in pista i voucher è dunque destinata a riaprire lo stesso scontro ideologico con i sindacati e la sinistra che si verificò sei anni fa, quando il governo Gentiloni – anziché correggere gli eccessi e gli abusi – decise di privare migliaia di piccole aziende e di famiglie della possibilità di ricorrere a uno strumento flessibile che, se usato correttamente, semplifica ed amplia le dinamiche del lavoro. La scelta di allora fu dettata dalla spada di Damocle del referendum abrogativo promosso dalla Cgil, e alla strada faticosa e complessa la sinistra preferì – come sempre – quella assai più semplice del colpo di spugna: il referendum fu evitato, ma con l’abolizione dei voucher si aprì un vuoto operativo e normativo che ora il governo Meloni ha deciso di colmare venendo incontro a un’esigenza molto sentita dalle famiglie e dalle imprese che hanno usato i voucher in modo tracciato e corretto. Recuperando così lo spirito originario della riforma Biagi, incentrata sulla flessibilità e sull’obiettivo di far emergere il sommerso.