Copiare il modello tedesco del salario minimo non è la strada idonea per l’Italia. Nel nostro Paese, il 90% dei lavoratori è coperto dai contratti collettivi
Che la sinistra politica e quella sindacale scendano in piazza per protestare contro l’aumento degli stipendi previsto nel decreto Primo Maggio è un paradosso tutto italiano, ed è interessante sapere come reagiranno agli ultimi dati dell’Istat, che hanno certificato l’andamento positivo di occupazione e contratti stabili, con un sensibile aumento della fiducia delle imprese nell’attività del governo Meloni. La premier, del resto, ha impostato la sua politica economica su un elementare principio liberale: “Lo Stato non deve disturbare chi ha voglia di fare”. Non basta dunque la riformulazione del reddito di cittadinanza, legando il sussidio in modo più diretto al disagio sociale, quello dei poveri e delle periferie, ma anche quello delle madri lavoratrici con i figli a carico: per tornare a far crescere il Paese in modo stabile serve riaffermare la centralità dell’impresa, senza aggiunfere vincoli e norme che ne limitano la libertà. Una visione del tutto alternativa a quella che ha ispirato tutti gli ultimi governi di centrosinistra, con leggi e direttive recepite in modo più stringente rispetto alle indicazioni di Bruxelles. L’obiettivo – che è lo stesso del Pnrr – è il recupero di produttività attraverso innovazione, capitale umano e riforme, via maestra per attrarre investimenti, aumentare l’occupazione e far crescere le retribuzioni.
Dagli anni ’90 a oggi i difetti più drammatici del mercato del lavoro italiano sono costantemente quattro: prima di tutto il tasso di occupazione complessivo patologicamente basso, a fronte di tassi di dieci punti più alti in Gran Bretagna e Germania, e di quindici nei Paesi scandinavi, un dato che sconta la lontananza dal lavoro di donne, anziani e giovani. Poi la produttività del lavoro, che non cresce da molti anni: un’immobilità che porta con sé una retribuzione oraria più bassa rispetto alla media europea. Poi c’è la disoccupazione altissima nel Mezzogiorno, infine lo stato comatoso dei servizi per l’impiego in tutti i loro comparti: orientamento scolastico e professionale, collocamento, formazione professionale, formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti. Di questo difetto sono diretta conseguenza, da una parte, il fenomeno delle troppe posizioni di lavoro che restano permanentemente scoperte per la difficoltà di trovare addetti con le qualifiche necessarie (ormai circa un milione); dall’altra il disincentivo all’ingresso di investitori stranieri per la difficoltà di trovare la manodopera necessaria nel nostro mercato del lavoro.
C’è un punto fondamentale che la sinistra italiana finge di ignorare, insistendo sul salario minimo fissato per legge: per aumentare i salari occorre prima di tutto agire sulla leva della crescita e della produttività. Non a caso, i Paesi che hanno visto migliorare la condizione dei lavoratori sono quelli che negli ultimi trent’anni sono riusciti a incrementare Pil e produttività. Copiare il modello tedesco del salario minimo quindi non è la strada idonea per l’Italia, dove quasi il 90% dei lavoratori è coperto dai contratti collettivi. L’imposizione di un salario minimo per legge sarebbe una violazione della libertà contrattuale e rischierebbe di indurre le piccole imprese a recedere dai contratti nazionali applicando un salario più basso di quello fissato dagli accordi. Il problema dunque è diminuire il costo del lavoro per le aziende e assicurare una busta paga più pesante per i lavoratori: è qui che bisogna intervenire, perché siamo il Paese che registra il maggior divario in Europa tra il costo per il datore di lavoro e la retribuzione netta del dipendente. Si chiama cuneo fiscale, e il governo ha iniziato a tagliarlo, compatibilmente con le risorse disponibili, con la prospettiva di renderlo strutturale. E’ quanto chiedevano da tempo i sindacati, che ora invece scendono in piazza: un cortocircuito logico frutto avvelenato di un evidente pregiudizio politico che fa perdere di vista la realtà.