In centinaia si precipitarono dal comizio di Occhetto in piazza Navona ad aspettare il “nemico” davanti alla sua residenza romana.
Sono passati trent’anni dal lynch mob davanti al Raphael, quando Bettino Craxi fu bersagliato da un fitto lancio di monetine passato alla storia come l’evento simbolo della rivolta popolare contro i ladroni di Stato. In realtà fu una gazzarra organizzata che il leader socialista volle affrontare a viso aperto, rifiutandosi di uscire da una porta di servizio, e non esitò a definire i contestatori come “tiratori di rubli”. Già, perché dietro quell’orrendo tumulto ci fu anche, oltre alla mobilitazione di missini e leghisti, la regia del Pds, che aveva fretta di sbarazzarsi dello scomodo Cinghialone ferito. In centinaia, infatti, si precipitarono dal comizio di Occhetto in piazza Navona ad aspettare il “nemico” davanti alla sua residenza romana. Quei giorni oscuri sono considerati come il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, e da qualcuno addirittura come “l’inizio della fine della politica” è il passepartout per la lunga stagione populista. Era scoppiata Tangentopoli, l’Italia era percorsa dal fremito giustizialista che si attagliava perfettamente a un Paese di moralisti senza morale, infoiato fino al parossismo dalla caduta fragorosa degli dei della politica. Craxi pagò per tutti, mentre i comunisti scamparono alla tempesta grazie ai magistrati di sinistra e a quel bizzarro popolano in toga che rispondeva al nome di Antonio Di Pietro. Un personaggio grezzo, arcinemico della lingua italiana ma che in pochi mesi divenne l’eroe assoluto dell’italiano medio e della sua voglia di forca. Mani pulite fu in realtà un falso lavacro morale guidato da una Procura intenta a trasformare un ordine giudiziario in un potere onnipotente, in grado di dettare le leggi, disfare i governi e imporsi come supplente della politica con la complicità di Scalfaro, il vecchio democristiano di destra, discepolo di Scelba, che era salito al Colle grazie a Pannella e, ironia della storia, col beneplacito proprio di Craxi.
Scalfaro sciolse senza batter ciglio il Parlamento degli inquisiti (i quali poi vennero quasi tutti assolti, a carriera distrutta) salvo alzare la voce quando quel vento giacobino cominciò a bussare al portone del Quirinale per la faccenda dei fondi occulti dei servizi segreti. Solo allora Scalfaro, a reti unificate, urlò il suo “non ci sto”. Ma aveva taciuto, lui come l’allora presidente della Camera Napolitano e come tutti gli altri, quanto Craxi, il 3 luglio del 1992, pronunciando la sua autodifesa, aveva messo in guardia dal rischio mortale che stava correndo la Repubblica: “Un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico – aveva scandito nell’aula imbarazzata e glaciale di Montecitorio – per quanto reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l’avventura”.
E così, purtroppo, è avvenuto, sull’onda di un’ubriacatura giustizialista di cui ancora oggi scontiamo le conseguenze. Quel discorso finì nel vuoto della falsità e dell’ipocrisia di chi aveva già pianificato tutto: la fine dei partiti democratici e la presa del potere per via giudiziaria. “La storia si incaricherà di dichiararli spergiuri” – avvertì Craxi, ma la nemesi per i comunisti epigoni di sé stessi non sarebbe mai arrivata, e le tardive (e ipocrite) prese di distanza dall’orrore delle monetine del Raphael non cambiano la sostanza di quell’evento squadrista. “Tutto vorrei – disse Craxi – meno che essere riabilitato da coloro che mi hanno ucciso”.