Paolo Celli non è stato spettatore della vita, ma protagonista, trasformista e instancabile narratore della propria avventura umana e professionale. Cantante, stuntman, attore, indossatore, controfigura, chef delle star: la sua biografia è un romanzo a episodi, ognuno con un colore e un sapore diverso.
Tutto è cominciato nel 1941 a Montecarlo, in provincia di Lucca, dove ha fatto il fabbro, il falegname, il sarto, il gelataio e il becchino. Ancora ragazzino, è partito in giro per l’Italia sbarcare il lunario. Prima di lasciare i suoi affetti, si era fatto una promessa: un giorno avrebbe realizzato i suoi sogni e sarebbe stato amato da tutti. Quella è stata solo la pagina iniziale di una storia avvincente: la narrazione della sua esistenza, scandita da sacrificio, riscatto, talento e fantasia.
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Paolo Celli, Lei ha vissuto tante vite in una sola. Partiamo da dove tutto è iniziato: quali sono le origini di un uomo che ha vissuto un’esistenza da romanzo?
Io ho dei ricordi vividi dalla metà degli anni Quaranta nel mio paese, Montecarlo. Mio padre era un boscaiolo e mia madre una casalinga, che, all’occorrenza, aiutava con le faccende le suore, che avevano anche la scuola. La mia mamma mi portava spesso con lei e, da lì, ho imparato le prime cose, che poi mi sarebbero servite per tutta la vita nel mio mestiere di chef. Infatti, sin da piccolissimo, potevo riconoscere le erbe, come il rosmarino, la salvia, l’alloro o la mentuccia. Man mano che crescevo, mentre mia madre dava una mano a pulire le aule, io andavo sempre in refettorio e acquisivo i primi rudimenti della gastronomia. Si trattava di una cucina molto semplice, povera, ma ben fatta.
Lei ha già raccontato di aver visto, da piccolissimo, la statua della Santa Vergine che piangeva. Vuole ricordarci quel momento?
Assolutamente. Nel cortile c’era la statua della Madonna, che io ho visto piangere lacrime e non una volta sola. Ho provato a raccontarlo ai miei genitori, alle suore, agli adulti che mi circondavano, ma non mi hanno creduto.
Però, in seguito ho saputo che c’è stato un incontro: sono venuti diversi prelati per verificare la veridicità delle mie parole. Sfortunatamente, non è successo nulla.
A causa di diversi episodi che mi sono accaduti nel corso della mia vita, sono certo che la Santa Vergine, alla Quale sono molto devoto, mi abbia costantemente protetto: da piccolo e da grande. Quando avevo 10 anni, sono andato in un bosco vicino al paese per cercare i funghi. Sotto un albero c’era una bomba inesplosa ed io, incosciente, me la sono caricata sulle spalle. Siccome era pesante, l’ho spesso buttata a terra e non è successo nulla. Tornato nei paraggi, la gente è scappata e sono intervenute le forze dell’ordine. Qualche tempo dopo, sono riandato nella pineta insieme ad un amichetto e si è scatenato un temporale. La pioggia era talmente forte che ci siamo detti che era meglio rincasare perché le nostre mamme potevano preoccuparsi. Mentre correvamo a pochi centimetri l’uno dall’altro, un fulmine ha preso questo bambino e l’ha ucciso davanti ai miei occhi. Sono scappato a chiamare i soccorsi e, col senno di poi, ho cominciato a credere che fosse un miracolo. Da adulto, ho avuto anche cinque infarti, che sono tanti!
Ci consenta di tornare alla Sua infanzia. Ma che bambino è stato Paolo Celli?
Io ho fatto fino alla quinta elementare perché la mia famiglia era povera. Per cui, spesso e volentieri, dovevo mancare da scuola per lavorare e aiutare in casa. Mio padre non poteva muoversi granché e, essendo io il figlio più grande, ho dovuto darmi da fare. Per questo motivo ero l’ultimo della classe. Una volta, il maestro ci ha detto di scrivere la data sul libro. Io l’ho fatto e, su sua richiesta, gli ho fatto vedere ciò che avevo prodotto: avevo scritto esattamente “la data” e non quella del giorno (ride, n.d.r.). D’altronde, non avevo tempo per studiare e i miei compagni mi schernivano e mi allontanavano. Ricordo che c’era lo studente più bravo di tutti, Fausto, che era circondato da tutte le scolarette per le sue abilità ed io ci soffrivo.
In ogni caso, ero comunque un bambino della mia epoca. Non c’erano svaghi, come la televisione. Quando calava la sera, dopo la guerra, le suore mi mandavano a prendere il latte con un recipiente di latta bello pesante, che conteneva 5 o 10 litri. Camminavo per due chilometri all’andata e al ritorno per poter ricevere una piccola ricompensa da parte loro: una fetta di pane con la marmellata o la cioccolata. Una cosetta semplice che per me era tantissimo perché, anche se con poco, avevo contribuito. Che tempi… quel pezzetto non è che lo mangiavo io… (si commuove, n.d.r.) anche se devo ammettere che lo avrei fatto in un secondo a causa della fame. Però, aspettavo di arrivare per dividere ciò che avevo ‘guadagnato’ con i miei fratellini.
Abbiamo letto di come Paolo bambino riusciva ad unire l’utile al dilettevole. Dell’amore per la Settima Arte e dei sogni che rincorrevano i sogni mentre vendeva i gelati e le bibite al cinema Paradiso di Montecarlo. Passioni e desideri?
Esattamente. La domenica andavo al cinema Paradiso, dove una volta a settimana proiettavano i film dell’epoca, come Don Camillo, Tarzan e le pellicole strappalacrime con Amedeo Nazzari. Ai miei occhi di bimbo, era un bell’uomo che faceva innamorare tutte le donne che aveva attorno. Allora mi sono detto: “Voglio fare anche io quello che fa lui. Da grande diventerò un attore!“. Da che ho memoria, il mio desiderio più grande era quello di emergere e dimostrare che, pur essendo un ‘asino’, ce l’avrei fatta, anche perché la provincia mi andava stretta.
Gli anni ’50 sono per l’Italia quelli del più grande progresso economico e sociale. E sono gli anni nei quali Lei, appena 12enne e con la classica valigia di cartone, raggiunge Torino, dove avrebbe lavorato come lavapiatti sulle note della canzone Mamma, interpretata da Luciano Tajoli. Che cosa voleva dire lasciare i Suoi affetti e trasferirsi in una città che non conosceva?
Quando ho finito la quinta elementare, mio padre avrebbe voluto mandarmi in un collegio di Montecatini per garantirmi un futuro migliore. Siccome non avevo nessuna voglia di essere ‘rinchiuso’, ho saputo che una signora di Montecarlo aveva un’attività a Torino. Per arrivare in quella città, sono salito su un camion che ci si recava ogni due settimane per consegnare i prodotti toscani. Arrivato a destinazione, sono stato assunto come lavapiatti in questa trattoria che, nonostante fosse piccola, faceva quotidianamente 100 coperti. Avendo io 12 anni, non arrivavo al lavandino, per cui dovevo mettermi sotto i piedi una cassetta della birra.
Mentre pulivo le stoviglie, effettivamente, cantavo dei brani che mi ricordassero la mia casa. Guardavo fuori dalla finestrella che c’era in cucina e intonavo brani come Buongiorno Tristezza e, appunto, Mamma, perché ero avvilito: sentivo tantissimo la mancanza della mia famiglia, alla quale mandavo tutto ciò che guadagnavo.
Durante quell’esperienza, accaddero cose che mai i suoi occhi di bambino avrebbero dovuto vedere?
Purtroppo diverse. Il primo posto dove ho lavorato a Torino era un ristorante, ma anche albergo, spesso frequentato dalle ‘donnine allegre’ con i loro clienti. Quella locanda aveva, per ogni piano, tre bagni, che venivano condivisi dagli ospiti. Io dormivo in una di queste toilettes, mettendo una tavola sulla vasca da bagno con un materasso. È accaduto che, di tanto in tanto, quelle signorine mi dicessero di andare a dormire con loro, ma io ero un bambino e non sapevo che cosa realmente volessero da me. Non avevo mai vissuto la mondanità.
Un evento che mi ha segnato è stato quando hanno cambiato il cuoco di quel locale. Dopo diverso tempo, ne è arrivato uno più giovane del precedente, che aveva più o meno 40 anni. Questa persona mi dava fastidio: voleva che io le realizzassi delle pratiche intime con la bocca, mi toccava, ma io non volevo. Così ne ho parlato con la padrona e me ne sono andato.
Nuovo posto di lavoro e nuove esperienze. Il nuovo cuoco si è ammalato e Paolo Celli ha fatto un incontro da fiaba. Ce lo vuole raccontare?
Certo. Passato un anno mi ero ambientato in questa nuova realtà. Una sera, è venuto il segretario della compagnia della famosa Wanda Osiris, che comprendeva Delia Scala, Carlo Croccolo, Carlo D’Apporto e altri nomi altisonanti. Questi artisti erano in tournée nel teatro a 500 metri da dove stavo io. Qui è successo l’impensabile: la prima sera, il cuoco, che aveva più di 60 anni, si è ammalato. Il padrone era disperato, allora io mi sono fatto avanti poiché, mentre sbucciavo i piselli o pelavo le patate, avevo appreso i segreti del mio superiore, dato che a lui non piaceva condividerli. Per ci, mi sono messo in gioco e ho vinto. Ogni serata, ricevevo i complimenti da parte di tutto il gruppo della Wandissima, ma c’era un problema: volevano conoscere chi aveva cucinato per loro. Il direttore faceva lo gnorri, fino a che, all’ultimo, la Osiris, seguita dai suoi colleghi, si è alzata e ha raggiunto la cucina. Dopo aver mangiato la fonduta con tartufo bianco, le escargots alla parigina, i ravioli al barolo, hanno dato un calcio alla porta a vento per conoscere chi gli aveva riempito la pancia. Ovviamente, hanno trovato solo me. Seguiti dal responsabile, che gli ha comunicato che ero io lo chef, Wanda Osiris, davanti agli occhi scettici dei suoi compagni, ha esclamato: “Ma è un bambino!“. La diva delle scale mi ha preso in braccio, pesavo 38 kg, e mi ha fatto promettere che, una volta adulto, sarei andato a lavorare per lei. In più, si è fatta prestare il cappello da Carlo Croccolo, dove all’interno sono arrivati a regalarmi 10mila lire, che nel 1953 era una cifra. Basti pensare che io ne prendevo 5mila in 14 giornate di fatica.
Ad un certo punto Lei ha lasciato Torino e si è trasferito a Roma. Come mai?
Un giorno c’era una 13enne come me, Silvana, che abitava davanti al cortile dove io lavavo piatti e mi sentiva cantare. Lei aveva una famiglia molto povera e, 24 ore dopo la nostra conoscenza, sarebbe stato il compleanno del suo papà. Parlando del più e del meno, mi ha confessato che le sarebbe piaciuto regalare qualcosa al suo genitore, ma purtroppo non poteva permetterselo. Quindi, molto commosso, le ho proposto di farsi trovare l’indomani alle 15.00 di fronte alla cantina del ristorante, dove era presente una finestrella con le inferriate ed io le avrei passato una bottiglia di vino. Mentre stava per accadere quanto concordato, il padrone dell’hotel mi ha colto in flagrante. Così, mi ha strappato dalle mani quel poco succo d’uva e mi ha licenziato, per poi accompagnarmi alla stazione e telefonare a mio padre, dicendogli che suo figlio era un ladro. Il signor Celli, che era un uomo integro e puro, ci è rimasto malissimo.
Tornato a Montecarlo, sono stato un paio di mesi fermo e, come per Torino, sono partito alla volta di Roma montando su un camion che consegnava i prodotti toscani.
Nella Capitale, Lei ha iniziato a lavorare nella pizzeria San Marco in Prati, dove in parte ha iniziato la Sua carriera di chef. In quel posto ha incontrato personaggi del calibro di Sandra Milo, Claudia Cardinale e Gianni Boncompagni…
Esattamente. Ho subito iniziato in quella pizzeria in qualità di aiuto cameriere. Poi ho imparato a fare le pizze e a realizzare i primi e i secondi piatti. Ci sono stato per 4 anni: dal 1955 al 1959 e veniva tutto lo show business italiano.
Insieme al lavoro di chef, quasi alla fine degli anni Cinquanta, Lei si è avvicinato al mondo dello spettacolo, prima come indossatore e poi nel cinema. Cos’è successo?
Sì, ho iniziato come indossatore a 17 anni. Nella Pizzeria San Marco veniva a mangiare Sergio Tocci, una specie di Rino Barillari del mio tempo, che mi aveva fatto diversi complimenti per la mia immagine. Per cui, mi ha portato presso la Sartoria Litrico. Il signor Angelo era uno dei primi sarti dell’epoca: aveva vestito personaggi come Kennedy e Mastroianni. Nonostante tutto, l’ambiente era un po’ pressante perché, quando sono entrato in contatto con alcuni addetti ai lavori, volevano che io, per andare avanti nel cinema, scendessi a compromessi, una cosa che io non ho mai fatto nella mia vita. Per non avere fastidi, ho anche rinunciato a fare lo stuntman in Rocco e i suoi fratelli.
Malgrado tutto, la mia prima esperienza cinematografica è arrivata nel 1958, quando ho fatto la controfigura di Alain Delon. Stavano girando a Roma Che Gioia Vivere con la regia di René Clément. Davanti a dove lavoravo, c’era una palestra a Via Orazio che apparteneva a Musumeci Greco, un grande campione di arti marziali. Proprio lì, venivano formati gli stuntmen per il cinema. Infatti, avevo imparato le tecniche per cadere o a fare la lotta. Ho iniziato a frequentare quel posto per provare a realizzare il mio sogno da bambino. Ci avevano avvertito che il cineasta Clément cercava chi potesse sostituire la star francese in una scena particolare. Data la somiglianza dei tratti, hanno scelto me: dovevo salire sopra Castel Sant’Angelo e posizionare una bandiera, oltre alle scazzottate nel corso del lungometraggio.
Durante quel periodo, Lei ha fatto altri incontri a dir poco speciali. Uno di questi con Sua moglie Rita. Se ci permette, è stata il Suo primo amore?
Sì, ci siamo conosciuti perché lavoravamo insieme. Ovviamente è stata il mio primo amore. Le donne chi le aveva mai viste prima di allora? L’ho conosciuta, ci siamo fidanzati e poi nel 1964 ci siamo sposati.
Ma come è nato questo amore tra una scodella e l’altra?
Quando sono arrivato alla pizzeria San Marco, eravamo 18 persone a lavorarci. I proprietari avevano un appartamento che era per tutto il personale. Si dormiva in 3 o 4 in ogni stanza, avevamo il bagno e maschi e femmine erano separati. Nonostante questo, quasi tutti i miei colleghi, come me, hanno sposato quelle fanciulle.
Era la fine degli anni Cinquanta quando Rita, 14enne, è arrivata con la sorella, più grande di lei di 10 anni, da San Giovanni Incarico, provincia di Frosinone.
Il nostro amore, ostacolato all’inizio da mia cognata perché avevo 17 anni, è nato gradualmente. Ma poi, alla fine, tutti sono stati contenti.
Abbiamo avuto due figlie, Paola e Gina. Come può accadere quando non si va più d’accordo, nel 1981 ci siamo separati, per poi riconciliarci e risposarci dopo 35 anni.
Poi è la volta del ristorante Fiammetta. Ci risulta che le primissime star che ha incontrato siano Raffaella Carrà e Frank Sinatra. Come erano questi due mostri sacri?
Vero, una sera del 1965 sono entrati Raffaella Carrà e Frank Sinatra. Al tempo, si diceva che tra loro ci fosse un filarino, ma non lo hanno mai dato a vedere. Insieme stavano girando Il Colonnello Von Ryan. La Carrà era giovanissima, aveva una ventina d’anni ed era mora. Frank Sinatra era una divinità per tutto il mondo. Avendo lui origini italiane, l’ho fatto contento con le linguine al pesto e con gli spaghetti con le sarde. Mi faceva sempre tantissimi complimenti: oltre al suo contatto negli Stati Uniti, mi ha dato un’opportunità meravigliosa. In quel momento, stava girando ai confini con la Svizzera e le riprese erano in una galleria, dove scoppiavano le bombe tra i militari e i treni. Mi ha fatto fare la comparsa in quel meraviglioso progetto: per me è stato un enorme onore poter stare gomito a gomito con The Voice.
Un altro incontro, destinato a fare storia e che Le avrebbe aperto le porte dell’internazionalità, è quello con l’assistente di un’icona a tutto tondo. Faccia sognare i Lettori!
Nel 1966, veniva a mangiare frequentemente al ristorante un signore distinto, che mi ha confessato essere il segretario della famiglia Sachs-Opel. Complimentandosi, mi ha proposto di recarmi, in qualità di chef, allo chalet che i genitori del fotografo, imprenditore e playboy Gunter Sachs avevano a Gstaad. Io ho accettato di buon grado e, accompagnato da quell’intermediario, sono partito per la Svizzera.
Dopo le presentazioni ufficiali con i padroni e il resto del personale, mi hanno dato delle indicazioni per la colazione della mattina seguente. Avrei dovuto servire il cibo alle 8.30 in punto. Con un vassoio, che conteneva verdure crude e altri alimenti non troppo grassi, ho bussato alla porta di una stanza della villa. Una, due, tre volte senza ricevere una risposta. Allora, con estrema vergogna, mi sono permesso di aprire l’uscio. Non avevo visto nessuno, ma, mentre ero sulla soglia, ho udito una voce calda bisbigliare: “Viens, viens !“. Spostando lo sguardo, che era concentrato sul portavivande, ho visto Brigitte Bardot. La vedette, che all’epoca aveva una relazione con Gunter Sachs, era in déshabillé e mi ha incoraggiato ad entrare mentre lei era sdraiata sul letto. Ascoltando ciò che mi aveva invitato a fare, sono andato avanti e, a pochi centimetri dal letto, sono inciampato sull’alto tappeto, che io non avevo visto. Sinceramente, in quell’istante, mi ero incantato a guardare la Bardot in babydoll (ride, n.d.r.). Lei non è stata particolarmente contenta perché le ho rovesciato tutto ciò che le avevo portato. Molto nervosa, mi ha gridato contro: “Tu es bête ! Les italiens…“. Mentre io ero ancora ipnotizzato dal suo charme, Brigitte mi ha intimato di aiutarla a riordinarsi. Io non avevo il coraggio perché avrei dovuto asciugarle le gambe: l’imbarazzo è durato poco, dato che lei stessa ha preso la mia mano e l’ha portata verso il suo corpo, indicandomi dove e come dovevo pulirla: “Ici !“. Finito quell’attimo, mi ha chiesto scusa per essersi fatta prendere dalla collera.
Ci perdoni la franchezza. Dopo il Suo ‘sacrificio’, è successo altro o è tornato alle Sue mansioni? D’altronde, la meravigliosa interprete di Moi Je Joue rappresentava il sogno erotico di tutta Europa…
Naturalmente, me ne sono andato. Non mi sarei mai permesso di avventurarmi oltre.
Ha altri aneddoti interessanti che riguardano Madame Bardot?
Sì. Nei giorni successivi all’incidente della colazione, dei contadini hanno portato due conigli. Una volta li vendevano interi e al personale di cucina spettava occuparsi della pratica. Quella coppia di animaletti era rinchiusa in una gabbia, che è stata lasciata nel cortile davanti alla cucina. Brigitte è scesa dalla sua stanza e mi ha chiesto il motivo di quella presenza. Con tutta onestà, io le ho risposto che si trattava della cena della sera dopo che la signora Sachs voleva proporre ai suoi ospiti. La Bardot, inorridita, mi è saltata al collo, pregandomi di farli scappare e di non farli uccidere. Come avrei potuto dirle di no?
Al che, ho organizzato un piano. Ho preso i conigli, me li sono portati in camera mia e li ho messi nei cassetti del comò. D’accordo con l’attrice, ho sporcato un po’ il suolo con del sangue che apparteneva alle interiora destinate ai cani. Quando la Sachs mi ha chiesto che cosa fosse successo, io le ho suggerito una cosa ben precisa. Le ho spiegato che, forse, a causa di una svista, i contenitori erano stati lasciati aperti e che nella notte le bestiole erano state mangiate dalla volpe o dalla faina. Inutile dire che Eleanor Opel si è arrabbiata moltissimo. Assicurandole che non era colpa mia, le ho giurato che i suoi invitati avrebbero mangiato bene lo stesso. E così è accaduto.
48 ore dopo dal ‘fattaccio’, io e la Bardot abbiamo preso la bicicletta e abbiamo liberato i conigli in campagna. Lei era contentissima e, in un certo senso, siamo diventati amici.
È cosa nota che a un certo punto la stampa dell’epoca ha fatto uscire delle foto Sue proprio con Bardot. Che cosa è successo?
La stampa italiana, dopo 15 o 20 anni dagli eventi citati poco fa, è riuscita a fare un fotomontaggio, dicendo che io ero l’amante della Bardot, invece non era vero.
Paolo, oramai sono passati tanti anni. Veramente BB non Le ha sussurrato Tu Veux, Tu Veux Pas?
Veramente non c’è stato niente (ride, n.d.r.). Io ero sposato e volevo bene a mia moglie. Devo dire che la Bardot era anche un po’ diffidente perché aveva paura che i fotografi invadessero, come spesso accadeva, la sua privacy. Ma io non ero il tipo da fare gli scandali per avere visibilità. Se una cosa è vera, bene, altrimenti niente.
A Gstaad, mentre era al cospetto dell’emancipata rappresentazione della Francia, Le è stata fatta una proposta che mai avrebbe potuto rifiutare. Ce ne vuole parlare?
Proprio allo chalet dei Sachs, è venuto come ospite l’assistente di Aristotele Onassis. Dopo aver mangiato la polenta con il capriolo, il fagiano arrosto al cognac con uva e pinoli, mi ha fatto tanti complimenti. Si è avvicinato e mi ha detto che, grazie al mio lavoro lì in Svizzera, stavo facendo parlare di me in tutta la Costa Azzurra. Per cui, l’armatore greco aveva piacere di avermi come fiore all’occhiello sulla sua ‘barchetta’.
Da lì è iniziata la Sua esperienza sul Mega-yacht Christina O, di 99 metri, del magnate. Lei si è ritrovato letteralmente nella storia: ovvero, l’arrivo di Jackie Kennedy, sposa di Onassis, e la fuga della Divina Maria Callas, che ha sempre considerato l’uomo il suo grande amore. Che cosa è accaduto?
Con il benestare di mia moglie, sono andato sul Christina O e, naturalmente, ho conosciuto il mondo in tutti i sensi. Ricordo addirittura di aver incontrato per la prima volta una Romina Power ragazzina che era lì con la madre Linda Christian. Tyrone già non c’era più.
Maria Callas veniva quasi sempre in cucina perché eravamo in simpatia, lei non mangiava quasi mai, perché all’epoca, secondo lei, era sovrappeso e dunque aveva fatto una speciale cura dimagrante che l’aveva fatta arrivare a 50-55 chili. Malgrado ciò, era interessata alla cucina italiana, specialmente quella romana. La sera, in alto mare, cenavano presto. Quando si faceva tardi, quelle 40, 50, 60 persone iniziavano ad avere un certo languorino. Dunque, la Callas mi diceva di preparare 2 o 3 chili di amatriciana o cacio e pepe.
Quando eravamo sul ponte, spesso scambiavo due parole con la Divina, che portava sempre con sé i suoi cagnolini. Un giorno è stata avvertita da qualcuno, non so che cosa le abbiano detto, e ho visto che si sfregava gli occhi. Data la vicinanza, le ho chiesto che cosa fosse successo perché era chiaro che piangesse. Lei mi ha risposto che non era nulla, se non la polvere che avevano alzato i gabbiani con un battito di ali. Più tardi, ha voluto fare un’esternazione che io ho capito solo poco dopo: “Paolo, ricordati sempre: un cane non ti tradirà mai, un essere umano, purtroppo, sì“. Effettivamente, nelle ore successive, è arrivato un elicottero scortato. Dal veicolo sono scesi Onassis e la vedova Kennedy, freschi di matrimonio. Mentre il commendatore ci presentava la sua nuova fiamma, la Callas è corsa in cabina. La differenza tra le due donne era tanta: la Divina era molto alla mano ed era davvero premurosa nei confronti del suo amore, mentre Jackie non salutava mai, ci trattava male e aveva la sua servitù.
Dopo quella sorpresa, la cantante lirica se n’è andata, mentre io ho continuato il mio viaggio.
Ha più rivisto, negli anni, Maria Callas e Aristotele Onassis?
Lei non l’ho mai più rivista, anche perché poi sarebbe scomparsa nel 1977. Mentre lui sì. Ci siamo rivisti fino alla prima metà degli anni Settanta. Ogni volta che veniva a Roma, il commendatore mi faceva chiamare dal suo collaboratore perché voleva che io gli facessi da guida e gli consigliassi dove recarsi. Nel 1973, il settimanale Gente ci ha fotografati all’uscita di una nota osteria.
Scusi, ma una domanda sorge spontanea: come comunicava con tutti questi pezzi da novanta? La maggior parte di loro non era italiana.
Bella domanda! Negli anni Sessanta, tornato alla pizzeria a Roma, hanno aperto a Via Lucullo l’English School. Lì ho iniziato a studiare l’inglese e il francese perché ero costantemente in contatto con i turisti che venivano a mangiare. E poi perché volevo anche rimorchiare (ride, n.d.r.)! Poi ho perfezionato la conoscenza anche stando con loro, d’altronde io avevo fatto solo la quinta elementare e non ero abituato a tante ore di studio. Ma, grazie alla passione, volevo dimostrare che pure ‘un poveretto’ sarebbe riuscito a riscattarsi.
A chi voleva dimostrarlo?
Al mondo. Nessuno aveva fiducia a me, né la famiglia mia nativa, né i parenti. Tantomeno le persone che conoscevo a Montecarlo. Volevo essere popolare. Ho ininterrottamente lottato per far star bene i miei genitori e i miei fratelli e ho sempre combattuto per avere successo. L’ho pagata tanto questa cosa a livello personale. Sono stato spesso lontano dai miei affetti, prima quello di mamma e papà e poi quello del nucleo che mi sono creato.
Nel tempo come ha gestito queste lontananze? Ci perdoni se la domanda Le sembrerà indelicata, ma è possibile che ci fosse questa voglia di riscattarsi per cercare un affetto da parte dei futuri fan che Le è mancato crescendo?
Mi sono mancati tanto i miei fratelli, che ho lasciato piccolissimi quando sono andato via, due di loro non ci sono più ora. La stessa cosa vale per i miei genitori. E, ancora di più, ho sentito la nostalgia per mia moglie e le mie due figlie Paola e Gina. Queste lontananze, le ho gestite con tristezza e, nell’ultimo caso, con un po’ di senso di colpa.
Quello ha senz’altro influito: sarebbe stato meraviglioso trovare l’amore da parte del pubblico.
Tornando all’attualità della nostra intervista, Lei, una volta tornato, oltre alle incursioni sul grande schermo, è diventato una stella dei fotoromanzi e del celeberrimo Carosello.
Sì, ho iniziato a fare i fotoromanzi alla fine degli anni Sessanta. Ho fatto anche una lunga serie con Isabella Biagini nel 1967. Io avevo 150, 200 foto ed ero diventato uno dei protagonisti di quel genere. La gente mi riconosceva per la strada perché ho preso parte a numerosi spot di Carosello. Dalla Coca-Cola alla Vespa, passando per la Barilla. I giorni seguenti alle mie apparizioni, non poche persone mi fermavano per chiedermi se fossi io.
In quel periodo, è uscita fuori un’importante occasione per quanto riguarda la sua professione di chef: gli Stati Uniti. Come è arrivato a questo traguardo?
Dopo Bardot e Onassis, sono tornato alla ‘normalità’. A quei tempi, è arrivata una famiglia di americani che alloggiava nell’hotel sopra il ristorante dove lavoravo. Un giorno, sono passato vicino a queste persone e ho sentito il capofamiglia che parlava pochissimo italiano, ma quando lo faceva, aveva un accento simile al mio. Conversandoci, ho scoperto che anche lui era di Lucca. A quel punto, mi ha offerto un posto di lavoro negli USA. Siccome gli ero sembrato volenteroso e bravo in cucina e in sala, mi ha chiesto di seguirlo nel suo farm restaurant in Michigan, Mount Pleasant. Io ho accettato e, dopo 6 o 7 anni, impiegati per sistemare i documenti, nel 1971 ha confermato che avrei potuto procedere con la partenza.
E che cosa ha fatto prima di iniziare la sua avventura negli States?
Innanzitutto, continuavo a fare il mio lavoro principale e mi barcamenavo tra cinema e fotoromanzi. Ma, poco prima di partire, mi è successa una cosa che mi avrebbe, in parte, preparato a ciò che avrei vissuto nei mesi successivi.
In quel 1971, a Roma è venuto il regista Joseph Losey, che doveva girare L’assassinio di Trotsky. In quel prodotto c’erano: Richard Burton, accompagnato dalla moglie Liz Taylor, Alain Delon e Romy Schneider. E io ero lo chef, perché il cineasta mi ha contattato e mi ha detto che aveva le mie referenze e gli avrebbe fatto piacere ricevere i miei servizi durante le riprese. Eravamo in un appartamento molto grande a Piazza Navona.
Si dice che ci sia stata un po’ di maretta con Alain Delon in presenza di Romy Schneider e dell’attrice francese Mireille Darc. È la verità?
Sì, è vero. Protagonista di quel film, insieme a lui, era anche Romy Schneider, con cui era stato fidanzato. Lui si era presentato sul set con la sua nuova fiamma, appunto la Darc. A Romy dispiaceva e veniva spesso in cucina, mi faceva le domande sul cibo e lui era un po’ gelosetto.
Delon aveva chiesto alla moglie del regista di avere delle mozzarelle di bufala. Io le ho prese e, per sbaglio, le ho messe nel frigorifero, cosa sbagliatissima perché tutte le mozzarelle vanno tenute nella loro acqua. Lui se n’è accorto e, pensando che io gli avessi voluto fare un dispetto, mi ha bloccato per il braccio per farmi capire il suo malcontento. La Schneider mi ha difeso e gli ha detto di lasciarmi perdere e a lui questa cosa non è andata giù. In ogni caso, io, con il mio animo pacifico, il giorno seguente, per mettere tutto in ordine, gli ho fatto trovare delle mozzarelle fantastiche che gli hanno fatto tornare il sorriso.
Le cronache romane raccontano di un sacerdote e una suora avvenenti che passeggiavano per Roma. C’è chi giura che la religiosa avesse proprio la faccia di Liz Taylor. Lei ne sa qualcosa?
Ovviamente! Nonostante lei non recitasse nel film di Losey, aveva i fotografi alle calcagna. Liz avrebbe voluto visitare la città e visitare i mercatini rionali, ma era impossibile a causa dell’enorme seguito che aveva. Quindi, mi sono fatto venire un’idea, che ho commentato alla moglie del regista. A Piazza Navona, vicino all’Arco della Pace, c’era una sartoria teatrale e cinematografica, alla quale abbiamo commissionato degli abiti talari per me e per lei. Con delle parrucche e degli occhiali finti non ci avrebbero mai riconosciuto! E così è stato. Avevano anche un’uscita segreta da una specie di castelletto del Medioevo in Via dei Coronari. In quel modo, eravamo liberi di passeggiare indisturbati.
Ha degli aneddoti?
Neanche pochi! Un giovedì siamo passati davanti a un negozio di pasta all’uovo, dove avevano scritto in grande “OGGI GNOCCA“. Liz Taylor mi diceva: “Oh, Paolo, I like gnocca. Do you like it too?“. Io rispondevo ridendo: “Certo che mi piace!“. Poi, la sera, chiedendo ai suoi assistenti, scoprì che non si trattava degli gnocchi (ride, n.d.r.).
Un’altra volta, siamo andati a Piazza del Fico, dove c’era il pescivendolo che vendeva la merce, ancora viva, appena pescata dal Tevere. Questo commerciante, che era la controfigura del famoso attore Maurizio Arena, gridava: “Venite donne, venite, oggi c’avemo er cefalo chiapparolo!“. Liz, incuriosita e vestita da suora, si è avvicinata. L’uomo, mettendole in mano il pesce vivo, le ha detto: “Venga sorella, venga, che je faccio sentì er cefalo chiapparolo“. Spaventata perché l’animale ancora guizzava, lo ha lasciato cadere, urlando. Il venditore, divertito, ha esclamato: “Ah, annamo bene, alla sorella nun je piace er cefalo chiapparolo!“. Anche in quella circostanza, solamente una volta rientrati, ha scoperto che cosa si celasse dietro quella colorita espressione romana. Sorridendo, mi ha guardato, dicendo che gliene avevo fatta un’altra.
Per non parlare della carne e della grappa…
Cioè?
La Taylor era attaccata a suo marito. Ci teneva alla sua salute e mi chiedeva di avere degli accorgimenti in cucina. Come l’evitare di salare troppo la sua carne o di dargli da bere la grappa. Siccome Burton amava la lombata di vitello ben cotta e salata, lei aveva il vizio di passarci il dito sopra per controllare se, effettivamente, lui ci stesse attento. Richard voleva questo sale, allora gli ho proposto di mettere quella sostanza sotto e non sopra ciò che mangiava. Allo stesso modo con la grappa. Facevamo finta che era mezzo bicchiere d’acqua per una pillola che doveva prendere. Durante una serata, Liz ha inghiottito un cioccolatino che non riusciva a mandare giù. Per cui, ha bevuto in un sorso il contenuto del bicchiere del marito. Quasi le è venuto un colpo! E, nuovamente, mi ha guardato con aria di sfida.
Con quella diva siamo entrati proprio in sintonia. Lei mi chiamava little rascal, bricconcello. Ho vissuto delle belle giornate con lei. Spesso e volentieri, la accompagnavo su una delle prime Alfa Romeo Spider nelle campagne vicino Roma. Entrava vestita da monaca e usciva in minigonna, era meravigliosa. Devo dire la verità: ho avuto la percezione che un po’ si fosse invaghita di me, perché le stavo vicino e la facevo sorridere.
Come per Brigitte Bardot, non possiamo non chiederLe se ci sia stato qualcosa di più di una ‘semplice’ amicizia.
Niente, davvero (ride, n.d.r.).
Veramente? D’altronde i cuochi sono come i marinai: donne e guai.
Ci dica la verità, quali interessanti figure femminili, tra cui star, hanno avuto il privilegio di mettere il sale nell’acqua della sua pasta?
(Ride, n.d.r.). Sul serio.
È vero che sono stato un po’ paravento negli anni, ma diciamocelo: un vero signore, anche se le fa, non le racconta. Non sarebbe corretto nei confronti delle persone interessate.
Certo. Ma poi che cos’è accaduto?
Poi loro sono partiti. Ma prima è avvenuta una cosa particolare. Un giorno, a Via della Vetrina è venuta una bellissima giornalista che era venuta ad intervistare tutta quella bella gente per la quale cucinavo. Non appena ha aperto la porta del mio regno, mi ha guardato e mi ha chiesto: “Paolo, che cosa ci fai tu qui?“. Si trattava di Margherita Simoni, una professionista che, purtroppo, ora non è più con noi. Io l’avevo conosciuta un paio di anni prima sul set del film di cappa e spada Zenabel, a Civita Castellana, dove faceva l’attrice.
All’epoca, la ragazza si era appoggiata su delle tavole, che erano lì solo per fare scena e non agganciate. Uno dei due attrezzi le stava per cadere addosso ed io l’ho salvata. Dopo i ringraziamenti, ci siamo frequentati per un po’, poi ci siamo persi di vista.
Chi avrebbe mai pensato di rivederla in quel contesto e due anni dopo?
Al quesito che mi aveva posto, siccome nel ’69 le avevo detto che io facevo solo l’attore e lo stuntman, ora mi vergognavo di ammettere ciò che realmente facevo perché lo chef oggi è un lavoro ambito, ma prima non tanto. In ogni caso, nonostante mi sentissi in difetto, lei aveva capito tutto. Al che mi ha detto: “Ora ho intervistato loro, ma tra 15 giorni torno e voglio pubblicare una bella chiacchierata anche con te“. È stata proprio lei a darmi il titolo di Chef dei divi di Hollywood. Siccome io dovevo partire per il Michigan, le ho chiesto se poteva aspettarmi e ho ricevuto una risposta affermativa.
Finalmente Lei è partito per gli Stati Uniti d’America, dove diventa fondamentale in tutti i banchetti delle star. Come è capitato? Qual è stato il segreto del Suo successo?
Arrivato a Mount Pleasant, veniva a mangiare nel farm restaurant Talia Shire, conosciuta ai più per essere stata Adriana nella saga Rocky con Sylvester Stallone. Siccome lei aveva origini italiane, ha voluto presentarmi suo fratello Francis Ford Coppola. E così siamo diventati amici perché lui amava la mia cucina e il suo desiderio era di aprire delle attività in America che riguardassero la gastronomia. Dopo un mese che lo conoscevo, è stato chiamato per fare la regia de Il Padrino. Io, senza pensarci un secondo, gli ho chiesto se poteva portarmi con lui, dicendogli che non volevo essere ricompensato: ma lui era un gentiluomo e poi si sarebbe avverato il mio sogno: respirare l’aria dei divi di Hollywood.
Si è convinto e siamo andati a New York per due settimane per girare gli esterni. A disposizione avevamo una villa dove la sera c’erano dei volti pazzeschi. A parte Al Pacino, Marlon Brando, che facevano parte del cast, venivano tanti VIP. Lì ho cominciato a cucinare per delle personalità di spicco. Poi si passavano la parola, mi ingaggiavano per degli eventi perché io ero diverso: io preparavo dei manicaretti che gli altri non si erano mai spinti a fare. A differenza di quegli chef blasonati che conoscevano loro, io ero rimasto il ‘volgare cuoco’ delle povere trattorie. Io cucinavo dei piatti semplici, umili, ma gustosissimi. E loro apprezzavano tantissimo.
Come riusciva a trovare delle prelibatezze nostrane nel Nuovo Continente?
Negli Stati Uniti, c’erano molte famiglie di operai con origini italiane, perlopiù del Sud, che riuscivano a farsi arrivare dall’Italia i prodotti migliori, come le soppressate, le salsicce, il vino, il formaggio e il pecorino. Con loro scendevo a patti: se una forma del prodotto costa 10 dollari, io gliene facevo offrire 100: che cosa importava ai divi? D’altro canto, erano abituati a spendere molto di più per la cucina prima che arrivassi io. Poi le mogli dei lavoratori, che io avevo inserito nel mio staff, sapevano fare la pasta all’uovo, gli gnocchi, le orecchiette e tutto in casa, all’antica.
Che cosa amavano mangiare le star?
Da quando hanno assaggiato le ‘mie invenzioni’, hanno scelto di nutrirsi in maniera casereccia. Io con la cucina italiana povera, ho conquistato Hollywood. Quando mettevo a tavola la pizza calda, la tagliavo e ci mettevo dentro la mortadella: tempo 5 minuti e spariva. E ancora: fagioli con le cotiche; crostini alla toscana; fegatini di pollo; bruschetta all’aglio, che all’inizio non la voleva nessuno, ma poi…
Come ha fatto a farsi volere bene da tutti?
Mi chiamavano spesso e volentieri, mi ero fatto un nome nel circuito. Ho rincontrato Frank Sinatra, ho conosciuto: Sean Connery, Roger Moore e tanti altri…
Mi volevano bene perché ero volenteroso, sapevo stare al mio posto e poi ero sempre ligio al dovere. Più di una volta, è successo che mi abbia chiamato il segretario di Frank Sinatra alle 02.00 di notte, dicendomi che l’artista voleva fare uno spuntino, insieme ad una trentina di persone, a modo mio. Quando era solo, lo sentivo suonare il piano ed io lo accompagnavo con un violino immaginario, il prosciutto, e lui rideva mentre, davanti a me, eseguiva Strangers in the Night.
Paolo Celli ha cucinato per personaggi importanti, famosi, influenti. Lei ha mai avuto un idolo? Se sì, chi era? È riuscito a cucinare per lui?
Ne avevo due: uno da bambino e uno da adulto. Il primo era Johnny Weissmuller, l’attore del primo Tarzan: quando vendevo le caramelle al cinema di Montecarlo, pregavo per incontrarlo. Il secondo Frank Sinatra. Qualche anno dopo, ho incontrato e cucinato per entrambi! E non solo: ho nutrito anche la famosa scimmia Cheeta.
Quando ero nel farm restaurant in Michigan, sono venuti dei produttori che volevano fare dei documentari sulla lunga saga di Tarzan, dove sono intervenuti Weissmuller, l’attrice di Jane e, appunto, lo scimpanzé. A tal proposito, la star Kim Novak si era raccomandata di trattare bene quella bestiola. Siccome sapeva che amavo molto gli animali, dato che nella mia carriera ho cucinato anche per coccodrilli, serpenti, aironi e leoni, io ero l’esperto che faceva al caso loro. Così ho preparato le polpette con della carne, delle patate e del cocco macinato. Era molto divertente perché la scimmia si divertiva a lanciarle in aria per poi prenderle al volo in un sol boccone.
Nel 1972, Lei è tornato in Italia, dove ha aperto il Suo ristorante. Ha mantenuto dei rapporti con le sue amiche stelle o vi siete un po’ persi di vista?
Sì, sono andato via perché in quell’anno ho aperto Il Ciak a Trastevere, a Roma, dove continuavano a venire, direttamente dall’America. Prenotavano il tavolo un po’ di tempo prima perché sapevano che era difficile trovare posto. Oppure mi chiedevano di ritornare negli Stati Uniti per organizzare delle serate tra gastronomia e musica italiana.
Dal 1972, io ho venduto il mio locale nel 2010 per riposarmi, essendo arrivato alla soglia dei 70 anni. Dopo che ho smesso, ci siamo persi di vista. Ma ho saputo che Francis Ford, che tra l’altro in questi giorni ha ricevuto un prestigioso Premio alla Carriera, è tornato nel tempo.
Vuole condividere con i Lettori il ricordo più bello legato al Suo ristorante?
Senz’altro, il ricordo più bello è l’apertura, avvenuta dopo anni di sacrifici: non è stato affatto semplice, io partivo da zero. Ero contentissimo che anche nella mia proprietà venissero tantissimi volti noti, italiani e stranieri.
Per non parlare di quando negli anni Novanta, Coppola ha organizzato nel mio ristorante le nozze di diamante per i suoi genitori. Hanno preso tutto il locale, c’era tutta Hollywood e le forze dell’ordine, sotto copertura, sorvegliavano che tutto andasse bene, anche perché avevano chiuso tutto il Vicolo del Cinque.
Poi ci sono delle storie notturne che mi divertono ogni volta che ci penso. A pochi metri dal mio locale, c’era Il Puff di Lando Fiorini e, di tanto in tanto, passavamo le serate un po’ da me e un po’ da lui. La sera, le persone venivano a mangiare a Il Ciak dopo la chiusura dei teatri o degli ultimi programmi televisivi. Quando era tardissimo, io andavo a dormire nella brandina in ufficio, mentre magari c’era Gigi Proietti che giocava a carte o Renato Zero che aveva finito il suo spettacolo e voleva fare l’alba.
Senta, ma poi, una volta tornato nel Bel Paese, l’ha più ricontattata Margherita Simoni?
Assolutamente sì. Nel 1972, a pochi mesi prima di aprire il ristorante, l’ho chiamata e le ho comunicato il mio ritorno. Lei ha mantenuto la sua parola e ha fatto uscire subito il primo articolo sulla rivista Eva Express.
Lei era sposata, ma siamo usciti qualche volta insieme. Per cui, sono andato un sacco di volte nel suo ufficio a Via Barberini, dove la direttrice all’epoca era la signora Silvana Giacobini.
Ora racconterò un aneddoto simpatico! Un giorno, ho portato in redazione un mazzo di rose bellissimo fatto da me con le patate, le carote e le barbabietole. Solamente oggi ammetto che quel cadeau lo avevo realizzato per la signora Giacobini, per ringraziarla di aver accettato che uscissero quegli articoli su di me. Invece, quando Margerita mi ha visto con quei ‘fiori’ in mano, mi ha abbracciato e mi ha riempito di baci perché pensava che io avessi indovinato che era il suo compleanno, ma io non ne avevo idea. Certamente, non ho potuto fare diversamente che accettare.
Oggi mi piacerebbe contattare la signora Silvana che, oltre ad essere una bellissima donna, ha fatto uscire tre pezzi su Eva Express e uno su Gente. Quest’ultimo, in particolar modo, mi ha dato la forza di andare avanti. Sarebbe bello dirle: “Guardi, io sin da questo articolo ho cominciato a volare. Lei con il suo giornale mi ha dato la spinta come l’aliante per alzarmi e planare da solo“.
Ma è vero che, grazie agli articoli che L’hanno omaggiata, una ragazza ha lasciato il marito perché voleva sposarsi con Lei?
Proprio così! (Ride, n.d.r.). Dopo il secondo testo, mi hanno raccontato che al giornale sono arrivate più di 300 lettere di donne e di uomini. La moglie di un palermitano è scappata perché diceva di amarmi. Lui, da Palermo, è venuto a trovarmi a Roma con la Lupara. Sono successe tante cose…
Alessandro Pini, capitano di Vascello della Marina Militare Italiana, ha scritto sul Suo conto: “Paolo Celli è l’unico cuoco vivente che può vantarsi di avere cucinato per Gesù, Mosè e il Faraone, Ulisse e la maga Circe, Antonio e Cleopatra, Nerone, Attila, Robin Hood, il conte Dracula, Zorro, la principessa Sissi, Sandokan, il dottor Zivago, Tarzan, James Bond, Hitler e Mussolini, il Padrino e continuando fino alla Pantera Rosa, Rambo, Il signore degli anelli”. Una bella soddisfazione…
Enorme. Ho cucinato anche per tanti papi, ma solo nella finzione. Sarebbe un immenso onore cucinare per il Santo Padre.
A proposito di religione e impegno sociale: quando L’abbiamo contattata per questa intervista, doveva andare a cucinare per delle persone con disabilità. In tempi non sospetti, metteva al servizio dei bisognosi le Sue doti. Ce ne vuole parlare?
Non amo particolarmente esporre il mio impegno sociale, però sì, esatto, è qualcosa che ho sempre fatto perché credo che aiutare il prossimo sia importante. Quando avevo Il Ciak, ho conosciuto numerosi membri del clero, tra cui Padre Matteo Zuppi, che era Parroco della Basilica di Santa Maria in Trastevere. Lui è una persona davvero generosa: al ristorante, portava diversi senzatetto ai quali offriva il pranzo, ma io non avrei mai preso i suoi soldi. Un giorno gli ho detto: “Don Matteo, Lei un giorno diventerà Papa. Si ricordi che quando lo sarà, io vengo a cucinare per Lei“.
In tema di Conclave, dato che citava Padre Matteo Zuppi, Le chiediamo se ha mai pensato di prendere i voti, anche alla luce di tutto ciò che Le è capitato.
Se devo essere sincero, non ci ho mai pensato. Però sono sempre stato credente e devoto, rispetto tutti e, se posso aiuto chi lo necessita.
Ho anche insegnato l’arte del mangiare bene ad alcune monache, che, molto gentilmente, mi chiamavano “Maestro“. Un episodio che mi ha fatto davvero commuovere.
Paolo, Lei, da due anni a questa parte, ha stretto un sodalizio importante con Claudio Germanò, il Suo Angelo Custode, per rimanere in tema. Com’è nata questa amicizia?
Il nostro primo incontro ha avuto luogo quando ho ricevuto il Premio alla Carriera per più di 70 anni di lavoro. Lui, che è un artista, era il presentatore e si è avvicinato, facendomi i complimenti per le cose che avevo fatto. Da lì, abbiamo iniziato a frequentarci e a realizzare tantissime cose insieme. Lui è diventato il mio amico, il mio agente, il mio compagno di lavoro e, su misura per noi, è stato creato il format Lo Chef e il Vagabondo.
A proposito delle esperienze che avete vissuto, quali sono i vostri progetti futuri?
Il primo in ordine di tempo è quello del 9 maggio 2025. Si tratta dell’evento La Dolce Vita, un viaggio sensoriale tra cinema, musica, cucina, arte e cultura. In una sola notte al Centro 60ª Strada Studios di Frosinone, il pubblico potrà (ri)vivere insieme a me, Claudio Germanò, il musicista e cantante Giovanni Bocci, accompagnato dal suo gruppo Le Nuvole Barocche, i meravigliosi anni Sessanta. Di questa esperienza unica e affascinante, ringrazio Mario Iaboni e Vincent Tatangelo. Sono grato a Extra TV, visibile in Italia e in Canada, e alla Del Toro Style Web Agency.
Siamo reduci da una bellissima serata a Porcari, in Toscana.
Inoltre, l’estate è lunga: ci faremo un giro in tutta l’Italia per dare voce alla cultura in tutte le sue espressioni.
E poi come dimenticare il mio docufilm? Insieme a Germanò, autore e attore del progetto, Stefano Salvatori e Daniela Genta abbiamo cercato di trasporre nell’audiovisivo, aggiungendo delle chicche, ciò che ho raccontato a Giampiero Della Nina nel libro Paolo Celli – Istrione e chef delle stelle.
La ciliegina sulla torta sarebbe quella di realizzare un programma televisivo: Alla ricerca dei piatti perduti. Attraverso i miei racconti sulle star, sulla cucina e su un mondo che non esiste più, potrei far conoscere alle persone come si mangiava una volta, unendo gastronomia e cinema.
Parlando di documenti che La omaggiano, nei quali si è raccontato, avrà senz’altro dovuto scavare nel passato. Nonostante Lei sia una persona estremamente vitale, mi permetto di dirLe che nei suoi occhi ho colto un velo di malinconia, sia nella Sua infanzia, sia ora. Mi sbaglio?
Eh… purtroppo c’è. A livello personale ci sono delle cose che mi hanno deluso, ferito. Sofferenze mai raccontate e represse: malgrado io abbia provato con tutto me stesso a dimenticarle, sono costantemente lì, indelebili nella mente. A livello globale, credo che qualsiasi persona che ha vissuto la guerra abbia quell’inquietudine negli occhi che commentava Lei. Infatti, ricordo vividamente quando, durante il Secondo Conflitto Mondiale, hanno bombardato la casa di mio nonno che era situata in basso, mentre noi eravamo in collina. Gli esseri umani morti per strada o che morivano di fame…
Poi le mancanze, l’emigrazione, le perdite…
Ha sentito il peso o il pregiudizio su di Lei in quanto emigrante, anche se bambino?
Che cosa prova per quel Paolino Celli oggi?
Non direi il pregiudizio, anche perché sono partito ‘anonimamente’.
Provo molta tenerezza. Non avevo nessuno vicino che mi desse una mano o mi guidasse. Posso dire che troppo bene sono uscito con tutti i pericoli ai quali sono stato esposto: è talmente facile, e crudele, manipolare un bimbo. Le dirò una cosa che si collega anche a quella tristezza che ha notato nel mio sguardo. Poco dopo il mio rientro da Torino, io ero a riposare nella mia stanza e mio padre mi ha chiamato per dirmi qualcosa. Dopo che mi ha comunicato quanto aveva da dire, mi ha abbracciato. Mi sono letteralmente paralizzato e ho elaborato un pensiero di cui poi me ne sono pentito amaramente perché il mio papà ci adorava.
Si sente di dirci che cosa ha pensato?
Quello di essere fuggito da un orco per averne trovato un altro. D’altronde, ero rimasto scottato da quel tentativo di violenza che avevo subito…
A proposito delle mancanze, che Lei ha citato poco fa, di chi sente la nostalgia? Chi riabbraccerebbe?
Senza alcun dubbio, tra le persone che non ci sono più, i miei due fratelli e i miei genitori, che ho amato alla follia. Mi piacerebbe dire loro che, a modo mio, ci sono riuscito.
Un fortissimo abbraccio lo darei a Paola, la mia prima figlia che, nel 1986, è venuta a mancare giovanissima. Quando è ‘partita’ è stata una bella botta… mi dispiace tanto perché avrei voluto starle più accanto, ma il mio lavoro, con l’attività appena partita, non me lo ha permesso. Questo pensiero mi distrugge…
Sicuramente Paola sarà molto fiera di Lei…
Lo spero, grazie. Maggio per me rappresenta un mese piuttosto difficile, dato che lei ci ha lasciato il 2 di quel mese.
Cambiando discorso, nel 2018, a TV2000, nel programma Siamo Noi, Lei ha dichiarato: “Non sono mai arrivato dove volevo io“. Che cosa voleva dire?
Volevo dire che pur avendo fatto moltissime cose in tanti anni di lavoro e sacrificio, non sono arrivato a quella fama, a quella popolarità, alla quale ambivo. Io ho sempre voluto di più. Avrei gradito essere più apprezzato e valorizzato: ahimè, l’Italia spesso dimentica…
Anche se sono stato felicissimo quando mi hanno conferito il Premio 100 Eccellenze Italiane durante la sua IX edizione.
Quali consigli dà ai giovani che vorrebbero mettere i loro piedi nelle orme di Paolo Celli?
Non ho particolari suggerimenti, ma incoraggerei al lavoro, allo sforzo e al sacrificio, mantenendo i valori puri. Si può essere bravi quanto si vuole, però se si ha un obiettivo, bisogna dedicarcisi corpo e mente.
Ci perdoni la domanda volgarissima. Nella Sua carriera, ha guadagnato bene?
Non tanto come gli chef stellati di oggi. Una volta, questo mestiere non aveva la stessa considerazione che ha ora.
Durante questa intervista, c’è qualcosa che non abbiamo detto?
A dire il vero sì. Ce ne sarebbero ancora un’infinità da raccontare, come le riconoscenze che ho ricevuto in giro per il mondo, a Hong Kong, in Russia, dove mi adorano. O di quando ero cantante e sono arrivato fino a Castrocaro; che sono stato la controfigura di Gian Maria Volonté e Franco Nero; le volte in cui sono stato invitato al Maurizio Costanzo Show, prima in abiti miei, e poi vestito da Giuseppe Garibaldi, che interpreto oramai da tanti anni per lo Stato. E ancora, ancora e ancora…
In un flash, come racconterebbe Paolo Celli i Suoi primi 84 anni? C’è una colonna sonora che La rappresenta?
Il bilancio è positivo, ma francamente non è andata bene così…
Ho passato tutta la mia vita a lavorare: non esistevano né feste né malattie. Ho costantemente lasciato mia moglie e le mie figlie, sono stato poco presente. Ho dovuto sacrificare tanto la famiglia.
Tornassi indietro, qualche scelta eviterei di farla. Ma questa è stata la mia vita. Ho speso i miei anni migliori a fare ciò che amavo e per dimostrare al mondo che anche da niente si poteva diventare qualcuno. Non a caso, la mia colonna sonora è My Way di Frank Sinatra.
Ringraziamo Paolo Celli per aver aperto le porte del suo mondo e del suo archivio, raccontandosi con sincerità, passione e profondità. Attraverso le sue parole è emersa non solo la storia di uno chef, ma quella di un uomo che ha saputo trasformare la cucina in un atto di bellezza e umanità. Oltre a tutto quello che ha realizzato nel corso della sua carriera, ha saputo donare all’arte culinaria ciò che oggi in pochi riescono ancora a trasmettere: l’emozione autentica della convivialità e della condivisione.
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