Giovani in fuga: un Paese bloccato tra nepotismo e meritocrazia negata

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Una giovane in aeroporto con la valigia, simbolo della partenza all’estero: sempre più ragazzi lasciano l’Italia in cerca di opportunità. “È tutto bloccato, tanto vale andarsene”. Questo sentimento si diffonde tra molti giovani italiani, convinti che raccomandazioni e appartenenze politiche contino più di talento e impegno. L’Italia è percepita come un Paese fermo, ostaggio di logiche clientelari e di una cultura lavorativa in cui nepotismo e favoritismi prevalgono sul merito.

I dati purtroppo confermano che non si tratta solo di impressioni: l’Italia si colloca all’ultimo posto fra 12 Paesi europei per meritocrazia, segno di un immobilismo preoccupante legato a burocrazia e cultura “nepotista” sono dati di facile consultazione non impressioni di chi scrive. In altre parole, il sistema fatica ad attrarre e trattenere i talenti, e i giovani qualificati spesso preferiscono fare le valigie ed andar via dall’Italia verso una meta alcune volte sconosciuta.

Non è raro sentire storie di posti assegnati al candidato con gli agganci giusti. Molti ragazzi raccontano di colloqui in cui più delle competenze sembrano contare le conoscenze personali. Il risultato è una generazione che percepisce di non avere spazio: “senza spintarelle non fai carriera”, dicono in tanti. Spesso sento dire alcuni amici importanti sai mie figlia/o si è appena laureato che ne dici se te lo prendi li da te! Spesso faccio finta di non capire per evitare di dare delle spiacevoli risposte.

Questa sfiducia verso il sistema alimenta un malessere diffuso. Come ha rilevato anche il Forum della Meritocrazia, l’Italia soffre di mobilità sociale stagnante e fatica a valorizzare le persone che investono in studio e professionalità. Se nulla cambia, il rischio è che i talenti continueranno a cercare opportunità altrove, impoverendo ulteriormente il tessuto economico e sociale nazionale già provato dal calo demografico.

Un caso esemplare di questo circolo vizioso è avvenuto in una grande azienda statale di infrastrutture. In seguito a un cambio di governo, la società ha visto un completo ricambio dei vertici: il nuovo management nominato dalla politica ha sostituito in blocco la precedente squadra dirigenziale. L’intento dichiarato era “dare un segno di discontinuità”, ma le conseguenze sono state disastrose. Progetti strategici già avviati si sono arenati per mesi perché il nuovo gruppo dirigente doveva ancora “prendere le misure” e spesso mancava dell’esperienza specifica.

Ad esempio, importanti cantieri finanziati dal PNRR hanno subito ritardi tali da richiedere estenuanti negoziazioni con Bruxelles per non perdere i fondi. La stessa Corte dei Conti ha messo in guardia: cambi di governance e riorganizzazioni, se non gestiti con continuità, rischiano di rallentare l’azione amministrativa proprio nel momento cruciale di attuazione degli investimenti.

Nella vicenda delle Ferrovie dello Stato – una delle più discusse negli ultimi mesi – il valzer di nomine voluto dal governo ha lasciato l’azienda in un limbo. A oltre venti giorni dal cambio di amministratore delegato, la situazione era ancora in stallo tra pareri legali contrastanti e interlocuzioni ministeriali, mentre sui binari regnavano disservizi e caos. I nuovi vertici, scelti in base a equilibri politici, hanno impiegato tempo a insediarsi e a definire le strategie, frenando di fatto i progetti in corso.

Treni soppressi, ritardi “biblici”, cantieri fermi: i passeggeri e i lavoratori ne hanno pagato il prezzo. “Il balletto sulle nomine continua così come il caos e i disservizi… scelte incomprensibili che possono generare danni per l’azienda e per il Paese”, ha denunciato un parlamentare di opposizione in Commissione Trasporti. In altre parole, l’intera operazione di spoil system – il ricambio di poltrone di fiducia – ha rallentato pesantemente l’attività aziendale e causato danni economici tangibili, invece di portare i benefici promessi.

Ma arriviamo al nocciolo della questione, diversi osservatori sottolineano che troppi manager pubblici in Italia sembrano essere selezionati più per vicinanza politica che per effettive competenze. Basti pensare che l’età media dei CEO è di 61 anni e poche donne e giovani! Questa prassi, trasversale a vari governi, continua anche oggi e chiama in causa direttamente l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni. La Premier in carica ha più volte dichiarato di voler premiare le competenze e non le appartenenze nelle nomine delle società partecipate dallo Stato.

Le intenzioni dunque sarebbero quelle giuste. E infatti nelle recenti tornate di nomine ai vertici di grandi aziende pubbliche (da Eni ed Enel fino a Poste Italiane), il governo ha assicurato di aver svolto un attento percorso di valutazione delle competenze”. Tuttavia, la percezione diffusa – alimentata anche da episodi come quello citato – è che nella realtà spesso continuino a prevalere logiche di spartizione politica.

Anche senza scadere nella polemica, è doveroso evidenziare questo corto circuito. Se a guidare enti cruciali vengono messe persone non all’altezza, magari solo perché fedeli alla forza politica di turno, i risultati non possono che risentirne. In molti casi la competenza effettiva dei nuovi dirigenti è apparsa discutibile: c’è chi ha dovuto gestire dossier complessi senza averne l’esperienza, o chi ha ereditato progetti innovativi senza le necessarie capacità tecniche, solo perché designato dall’alto. Il governo Meloni, che pure nelle dichiarazioni pubbliche invoca il merito, è chiamato a dimostrare coi fatti questo impegno.

Servono procedure di nomina più trasparenti, criteri rigorosi e meno ingerenza partitica nelle scelte aziendali. Lo ha ribadito anche il presidente del CNEL Renato Brunetta, definendo la scarsa attrattività dell’Italia per i giovani una “vera e propria emergenza nazionale” e denunciando “insensibilità e immobilismo scandalosamente inaccettabili” da parte di istituzioni e imprese. In un’ottica costruttiva, quindi, la critica verso il governo attuale è un invito ad un cambio di passo: meno spoil system e più meritocrazia reale, per il bene del Paese. È fondamentale che la politica dia il buon esempio, mettendo le persone giuste al posto giusto – non amici o fedelissimi senza adeguata preparazione – così da ricostruire la fiducia dei giovani nel sistema.

Mentre sono in treno verso Zurigo, parlo con un ingegnere che mi racconta la sua esperienza personale. Vent’anni fa lasciai l’Italia con una laurea in tasca e molta amarezza verso un sistema che non mi dava spazio. Oggi lavoro come ingegnere nucleare in una multinazionale in Germania, dopo anni trascorsi anche in Francia, e posso confermare quanto sia diverso il trattamento dei professionisti fuori dal nostro Paese.

All’estero mi sono sentito valutato per ciò che so fare, non per chi conoscevo. Nei colloqui di lavoro contavano i risultati ottenuti e le mie capacità, senza che nessuno mi chiedesse “chi ti ha presentato”. Dopo due decenni, sono arrivato a ricoprire ruoli di responsabilità grazie al mio impegno e alla formazione continua, un percorso di crescita che temo in Italia mi sarebbe stato precluso o molto più difficile.

Confrontandomi con colleghi francesi e tedeschi, noto che per loro è normale che un giovane competente faccia carriera rapidamente, magari diventando manager a 35 anni se meritevole. In Italia, invece, spesso vedevo giovani brillanti bloccati in posizioni precarie, sorpassati da figure meno qualificate ma più anziane o sponsorizzate. La differenza è palpabile: in Germania nella mia squadra abbiamo avuto anche italiani appena arrivati, e li abbiamo visti fiorire perché finalmente liberati dal “soffitto di cristallo” che li limitava in patria. Un collega di Milano, ad esempio, qui ha ottenuto in pochi anni la guida di un progetto europeo, mentre a casa sua non riusciva a superare i contratti a termine nonostante le ottime referenze.

Da italiano all’estero, osservo con dispiacere come i nostri professionisti abbiano spesso bisogno di andare fuori confine per vedersi riconosciuti. Allo stesso tempo, mi accorgo che la reputazione degli italiani all’estero è generalmente ottima: sono considerati creativi, flessibili, preparati. Eppure, molti di noi non tornano più. Non è solo una questione di stipendi (che pure all’estero sono spesso più alti): è una questione di opportunità e rispetto professionale.

Una volta assaporato un ambiente dove merito e risultati aprono davvero le porte, diventa difficile accettare di rientrare in un contesto percepito ancora come chiuso e poco meritocratico. Non a caso, l’87% degli italiani emigrati valuta positivamente la propria scelta di espatriare e un terzo dichiara apertamente di voler rimanere all’estero stabilmente. La motivazione principale? La convinzione che in Italia manchino opportunità lavorative analoghe a quelle trovate fuori e che “nel Bel Paese non ci sia spazio per i giovani” .

Personalmente, spero un giorno di poter rientrare e mettere a frutto nel mio Paese l’esperienza che ho accumulato. Ma per farlo devo poter credere che le cose siano cambiate, che anche in Italia il merito abbia finalmente voce in capitolo. Come me la pensano tanti altri professionisti italiani sparsi per l’Europa: vorremmo tornare, ma solo se ci fossero condizioni dignitose e meritocratiche, senza dover ricorrere a spinte politiche o conoscenze influenti per ottenere quei ruoli che altrove abbiamo conquistato con le nostre forze.

Qualche dato merita di essere di seguito approfondito: Emigrazione giovanile: Dal 2011 al 2023 circa 550.000 giovani italiani (18-34 anni) hanno lasciato il Paese, per un saldo netto di 377.000 partenze considerando chi è rientrato. Il fenomeno ha subito un’accelerazione recente: nel 2024 il numero di italiani trasferitisi all’estero ha raggiunto 191.000 (record del XXI secolo), in aumento del 20% rispetto al 2023. Le destinazioni preferite, scelte dai giovani emigrati negli ultimi anni sono state la Germania, la Spagna e il Regno Unito. Anche Francia, Paesi Bassi e Stati Uniti figurano spesso tra le destinazioni, a seconda dei settori.

Si parla spesso di “fuga dei cervelli” perché tra chi parte vi è un’alta percentuale di laureati. Negli ultimi dieci anni, più di 1 giovane su 3 emigrato possedeva una laurea al momento della partenza. Metà dei partenti complessivi è laureata e un altro terzo diplomato. Molti trovano impiego all’estero in settori tecnico-scientifici, sanità, ingegneria, ricerca e finanza. Paradossalmente, il 58% di chi lavora fuori ricopre posizioni per cui in Italia le aziende hanno carenza di personale (tecnici specializzati, operatori qualificati nei servizi, ecc.) – a riprova che l’esodo riguarda competenze preziose di cui il sistema Italia avrebbe bisogno.

Per ogni giovane che arriva in Italia da un Paese avanzato, ben otto giovani italiani fanno le valigie e se ne vanno. L’Italia risulta ultima in Europa per capacità di attrarre giovani talenti: accoglie solo il 6% di migranti europei, contro il 32% circa di Paesi come Spagna o Svizzera. In altre parole, siamo un Paese che esporta giovani qualificati molto più di quanti ne attiri. L’emorragia di capitale umano pesa sull’economia e sulla società. Uno studio stima in 134 miliardi di euro la perdita di ricchezza legata alla fuga dei cervelli nell’ultimo decennio.

Le imprese faticano a trovare figure giovani e preparate, la pubblica amministrazione soffre di mancanza di energie nuove e il divario generazionale si accentua. Questa vera e propria erosione demografica (unita al calo delle nascite) mina la sostenibilità del sistema di welfare e pensionistico nel lungo periodo. Inoltre, il fatto che tanti giovani vedano il proprio futuro fuori dall’Italia è un campanello d’allarme sul clima sociale: indica sfiducia verso le possibilità offerte dal Paese.

Il crescente malessere delle nuove generazioni italiane di fronte a nepotismo e scarsa meritocrazia è un segnale che non possiamo più ignorare. La fuga dei giovani non è solo un fatto statistico, ma il sintomo di un malessere profondo: indica che molti tra i nostri migliori talenti non si sentono valorizzati in patria. Di fronte a questo, l’Italia deve reagire con coraggio e visione.

Le soluzioni passano da un cambiamento culturale e politico: trasparenza nelle assunzioni, regole chiare nei concorsi, valutazioni basate sui meriti e non sulle conoscenze. Bisogna creare un ambiente dove un giovane qualificato possa fare carriera senza bisogno di padrini influenti. Ciò significa premiare il merito nelle aziende (pubbliche e non), investire seriamente in opportunità per i giovani (dai percorsi di formazione al sostegno per nuove imprese) e garantire stabilità nelle strategie, evitando che ogni cambio di governo azzeri quanto fatto prima.

Non si tratta di favorire i giovania prescindere”, ma di metterli in condizione di competere ad armi pari. Un Paese che vuole crescere non può permettersi di sprecare le sue energie migliori. I numeri ci dicono che stiamo perdendo una parte significativa della nostra generazione più istruita e dinamica. Invertire la rotta è possibile, ma richiede volontà politica e uno sforzo condiviso: governo, istituzioni, imprese e società civile devono fare ciascuno la propria parte per ricostruire un’Italia dove il merito torni ad essere valore guida.

In un futuro ideale, un giovane italiano non dovrebbe più sentirsi dire “Se vuoi realizzarti, devi andare via”. L’obiettivo è che possa trovare realizzazione a casa propria, sapendo che il suo impegno verrà riconosciuto. Ridare fiducia ai giovani significa dare un futuro all’Italia. Sta a noi creare le condizioni perché la prossima generazione veda nell’Italia un Paese di opportunità, e non più un “treno fermo” da cui saltare giù.

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