Caso Dal Corso, la sorella sul suicidio: “Non l’avrebbe mai fatto”

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L’intervista di Marisa Dal Corso al Difforme sul caso di suo fratello, Stefano Dal Corso, suicidatosi il 12 ottobre nel carcere di Oristano

La speranza di Marisa, la sorella di Stefano Dal Corso, di fare chiarezza sulla morte del fratello non si è spenta. Si sarebbe suicidato il 12 ottobre 2022 nel carcere di Casa Massama ad Oristano ma la sorella non ci crede. In questa storia, infatti, sembrano non tornare alcune cose: prove che non quadrano, la mancata autopsia o TAC per decretare la morte per impiccagione, la voglia di Stefano di riabbracciare sua figlia, trovare un lavoro e rifarsi una vita. Abbiamo raggiunto Marisa nello studio del suo avvocato, Armida Decina, per parlare con lei e farci raccontare chi fosse veramente Stefano e perché l’autopsia appaia come l’unica strada percorribile per arrivare alla verità. 

Molti stanno paragonando suo fratello Stefano al caso di Cucchi, visto che per certi versi potrebbe sembrare simile. Ma non sono la stessa persona e non hanno la stessa storia. Vorrei mi raccontasse qualcosa a proposito di suo fratello. Chi era Stefano Dal Corso?

“Iniziamo subito col dire che Stefano è una persona molto semplice, famiglia numerosa, ultimo di dieci figli e un’adolescenza segnata da tante cose, come il collegio e una famiglia assente, ma non per questo voglio farlo risultare come se fosse un santo. Aveva commesso i suoi sbagli, nella sua vita ha fatto degli errori e delle scelte sbagliate ma tutte sulla sua pelle, senza mai ledere nessuno”.

“È una persona che stava lottando contro la droga in un modo assurdo, perché voleva smettere a tutti i costi e riemergere, soprattutto ora che voleva farlo per sua figlia di 7 anni. Cercava in tutti i modi questa rinascita, anche attraverso il lavoro. Aveva fatto un corso all’interno del carcere per imparare il mestiere di aiuto cuoco; quindi, cucinava ed era anche molto bravo a farlo”.

“Purtroppo, in varie circostanze, quasi sempre, veniva additato per i suoi errori passati, e questo lo buttava giù perché gli sembrava di aver capito che comunque, qualsiasi cosa lui facesse, quello che lui era stato gli si ripresentava sempre davanti. Ma la volontà non l’ha mai persa. Una persona che si portava dietro tanti sbagli ma che aveva anche tanta voglia di rimettere a posto le cose”.

I medici hanno affermato che non soffrisse di depressione e non mostrasse comportamenti autolesionisti. Come parente stretta avevano notato qualcosa di diverso? Qualcosa che non andava in Stefano? 

“Noi ci siamo sempre riferiti e crediamo a una relazione fatta dalla psicologa del carcere di Massama a Oristano che di ben due giorni prima del suo decesso. Lei all’interno della relazione ha affermato che Stefano aveva un comportamento sano e a tratti scherzoso, una persona tranquilla. Dalla relazione non risultava che Stefano avrebbe potuto commettere atti di autolesionismo, le probabilità erano scarse. Inoltre, non soffriva di depressione e non ci ha mai sofferto. L’unico fattore di stress era probabilmente la cura farmacologica, per il fatto dell’astinenza, perché era tenuto a seguire una terapia, anche se si lamentava di non essere perfettamente seguito su questo all’interno del carcere. Però, al di là della disintossicazione, da quello che scriveva e dalle telefonate che faceva, per la ragazza e per la figlia che lo aspettavano fuori, sembra ad oggi improbabile che si sia tolto la vita. Sono tante le cose che ci fanno pensare che è strano quello che è successo. Vogliamo solo sapere come sono andate le cose”.

Parliamo ora della storia del pacco sospetto che ha ricevuto l’8 marzo. Che idea si è fatta e che cosa ha pensato quando ha visto il contenuto al suo interno? Sono accaduti altri avvenimenti simili?

“Altri avvenimenti simili no. Per quanto riguarda il pacco, è stato del tutto inaspettato e strano riceverlo. All’interno c’era un libro, dal titolo “Fateci uscire da qui”, come se qualcuno facesse supporre che c’è o c’era bisogno di aiuto. Inoltre, da non tralasciare il fatto che all’interno del libro, sull’indice, c’erano due capitoli cerchiati a matita. I titoli di questi due capitoli evidenziati erano “la confessione” e l’altro “la morte”. Io personalmente penso che qualcuno ci voglia dire che c’è da fare una confessione sulla morte di Stefano”.

L’autopsia, quindi, sembrerebbe l’unica strada possibile per arrivare alla verità. Ci sono dei progetti o delle iniziative che state portando avanti oltre alla raccolta tramite GoFoundMe, per ottenere la somma necessaria e fare chiarezza sulla storia di Stefano?

“Sì, ci sono parecchie persone che si stanno mobilitando e dando una mano. Oltre al mio avvocato, Armida Decina, che si occupa di tutto quello che riguarda l’ufficio, per il resto stiamo organizzando varie iniziative. La prima è una fiaccolata, che si terrà nel quartiere di Stefano, il Tufello, il giorno 12 aprile e la seconda, organizzata da un altro avvocato che lavora sempre nello studio di Armida, Gaia Di Battista, che consiste in un evento incentrato sul basket, dove il ricavato verrà devoluto per l’autopsia di Stefano. L’unica cosa che basterebbe per mettere tutto a tacere”.

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