In che cosa consiste il “sistema Toti”? Secondo un editoriale di Repubblica, è preoccupante “l’avanzata senza freni della corruzione nel nostro Paese”. Un’affermazione simile ha già messo il sigillo su una vicenda giudiziaria ancora agli esordi: Toti sarebbe dunque al centro di un sistema di corruttela, di una ragnatela costruita con scambi di favori amministrativi e d’azione di denaro. Tutto semplice, tutto lineare. Toti ha registrato e regolarmente denunciato i soldi ricevuti da finanziatori privati? Non basta, perché quegli stessi finanziatori, imprenditori di primo piano a Genova, hanno poi ricevuto vantaggi (tutti da provare) in fatto di appalti, consulenze e quant’altro. Questa inchiesta, come molte altre inchieste su amministratori pubblici, da Torino a Bari fino a Genova, è stata avviata nel 2021 per concludersi a metà del 2024. “C’è stato questo filone da Bari a Torino a Genova sul quale bisogna riflettere”, ha detto l’ex presidente della Camera, Luciano Violante, intervenendo a un convegno organizzato dal gruppo Pd alla Camera. “La sequenza temporale è una sequenza interessante. Io credo che starei abbastanza attento a capire come stanno le cose”. A cosa si riferisce o allude il presidente Violante? Se guardiamo al calendario della politica, colpisce un particolare: nel febbraio 2021 c’è il cambio di governo. Cala il sipario sul più che controverso governo giallo-rosso di Giuseppe Conte, sostenuto da M5S e PD, e a lui subentra il governo di Mario Draghi con la sua ampia base parlamentare. Cambia anche il ministro della Giustizia: al simpatico Alfonso Bonafede, per le cronache mondane Dj Fofo, subentra un’accademica del valore di Marta Cartabia. Alla riforma del processo “senza fine”, caro ai Cinquestelle, viene sostituita la depenalizzazione di alcuni reati amministrativi e si rafforzano le pene alternative per le condanne penali più lievi.
Se è al mutato quadro politico che intende riferirsi Luciano Violante è di tutta evidenza che l’intreccio politica-giustizia aveva in quegli anni il suo perno nel M5S. Fra il 2018 e il 2021 due sindaci pentastellati, Virginia Raggi e Chiara Appendino, erano finiti nel mirino della magistratura. Subito risolti i guai amministrativi a Roma, rimane aperta, a Torino, la vicenda giudiziaria di Appendino. Ma siamo in presenza dell’ordinaria patologia che ha colpito le relazioni politica-giustizia dal lontano 1992.
Il mainstream di un certo garantismo preferisce parlare, nel caso di Toti, di giustizia “a orologeria”. I magistrati avevano il colpo in canna su Toti dal 2021 e avrebbero deciso di spararlo a ridosso della competizione elettorale europea dell’8-9 giugno. Lo stesso pensiero garantista diventa meno garantista quando un’iniziativa giudiziaria riguarda gli avversari politici. Funziona così, da oltre trent’anni. Ogni volta che una procura della Repubblica accende i riflettori su un’amministrazione, si tratti di un sindaco o di un presidente di Regione, e avvia un’iniziativa giudiziaria la politica, come nelle partite di rugby, è pronta alla mischia. Il magistrato lancia la palla e le due mischie, destra e sinistra, sono lì pronte a tirarsi calci sugli stinchi.
Funziona così, dal 1992. E chissà ancora per quanti anni. La destra, quando faceva opposizione ai governi Gentiloni, Conte, Draghi, non trascurava un sussurro della magistratura per chiedere le dimissioni di questo o quel ministro. La sinistra, ora che è all’opposizione, non lascia passare una mosca senza chiedere le dimissioni di Santanchè, Sgarbi, Salvini. È il successo più ambito da quella parte della magistratura che ritiene intoccabile il proprio potere, diventato strapotere nel vuoto della politica. Dividere gli schieramenti, vedere i partiti che si lanciano palle di fango e la politica trasformata in un wrestling. Con un ceto politico ridotto in condizioni di subalternità, morale e psicologica, ha gioco facile quella parte conservatrice e reazionaria della magistratura che si ritiene investita di un compito non previsto per essa dalla Costituzione ma diventato nel tempo il suo vero ufficio: custode e garante della moralità pubblica. Non più il magistrato che va a caccia di prove di reato, no. Il magistrato intemerato si è trasformato in arbitro del costume civile e morale. E la politica si è adeguata, quando ha potuto, o ha finto di adeguarsi quando non c’è l’ha fatta.
La sudditanza della politica all’ordinamento giudiziario è la vera e più grande patologia che sta corrodendo la democrazia in Italia. La politica, tutta, destra e sinistra e centro, è in una condizione di perenne genuflessione verso l’ordinamento giudiziario che troppi si ostinano a chiamare “potere” quando è un ordinamento, sottoposto alle leggi come tutti gli ordinamenti. Si vedano le riforme liberali annunciate dal liberale ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Annunciate con le trombe degli angeli, sono state silenziosamente riposte nei cassetti di via Arenula. Meglio occuparsi di premierato e di autonomia differenziata. Quei 10 milioni di italiani che hanno qualche impiccio da sbrogliare con la giustizia possono ben attendere.