Esulta il campo largo, per la verità più Schlein che Conte. Tace il centrodestra, sorpreso e un po’ intontito dal colpo, non si sa fino a che punto inatteso. L’unico a parlare è Antonio Tajani, con il consueto aplomb rassicurante: non cambia nulla nel governo e nel centrodestra. Un distillato di pura democristianità, e sta tutto qui il segreto che ha dato a Forza Italia il risultato forse più clamoroso se è vero che quasi doppia il risultato della Lega. Matteo Salvini tracolla, perdendo oltre il 50% dei consensi delle precedenti regionali e delle europee. Con lui, Carlo Calenda è l’altro grande sconfitto. Renato Soru con la ruvida schiettezza della sua terra non ha atteso un secondo per ammettere la sconfitta.
I prossimi saranno giorni carichi di polemiche neanche troppo sotterranee nel centrodestra. Si può immaginare l’umore della presidente del Consiglio, non è facile invece immaginare verso quale direzione si incanalerà la sua rabbia e la sua delusione per la sconfitta in Sardegna. Verso Salvini, certo: il meccanismo del voto disgiunto, che consente agli elettori di votare per un partito e scegliere un candidato presidente dello schieramento avversario, ha avuto il suo peso. Ma può finire tutta qui la ricerca delle cause che hanno prodotto una sconfitta nient’affatto inattesa?
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Per gli atteggiamenti di continua frizione con Meloni, Salvini naturalmente offre il fianco a molti sospetti. Dalla sua però ha una ragione forte: il crollo della Lega dovrebbe allontanare ogni ombra da lui. Si è giocato l’osso del collo e la Sardegna è diventata per lui terra bruciata. Qualche indizio in più sulle cause della sconfitta si trova ripensando ad alcuni recenti episodi che hanno visto Meloni protagonista. Per rimanere alla Sardegna: perché spingere fino in fondo per la candidatura di Truzzu, poco amato dai cagliaritani nel ruolo di sindaco? Non che Solinas sia mai stato un presidente amato o capace di suscitare chissà quali entusiasmi nella popolazione. Però il braccio di ferro per negare il candidato a Salvini ha guastato non poco la già difficile convivenza nel centrodestra.
Ha mostrato una qual certa supponenza nella presidente del Consiglio, come se fosse stata colta da quella hybris, quella particolare vertigine che dà il potere e alla quale incautamente ci si abbandona. È insolita in Meloni, dotata di una buona capacità di self-control, ma può capitare a chiunque e a lei è capitato. Caricare lei sola della croce sarebbe ingiusto, certo è che la decisione di spendersi in prima persona, tappezzare la Sardegna con suoi manifesti e non mancare un solo comizio del candidato Truzzu l’ha portata a una sovraesposizione per cui è difficile scrollarsi di dosso l’idea di essere lei la vera sconfitta del voto.
Nel campo della sinistra, reso largo dagli elettori, i riflessi del voto in Sardegna annunciano una nuova fase di riflessione e costringono Conte a un confronto politico diretto con il Pd, lontano dalle furbizie levantine con cui aveva trattato Schlein. L’apporto dei due leader alla vittoria di Todde è stato minimo, all’opposto dell’alto contributo di Meloni alla sconfitta di Truzzu. La vittoria della manager, complimentata da Meloni e dal ministro Giorgetti di cui era stata vice nel governo Draghi, in qualche modo taglia la strada ai giochi di Conte costringendolo a una postura meno conflittuale con il Pd. Il campo largo ha dato frutti insperati in Sardegna. Pensare a una replica automatica in Abruzzo o in Basilicata sembra azzardato, certo però che una vittoria autorizza a sperare in qualche replica. Cambia lo scenario quando il campo largo o giusto, come preferisce chiamarlo Conte, si trasferisce sul piano nazionale. Dove altri è più delicati fattori entrano in gioco.
Conte e Schlein hanno idee abbastanza diverse sé non opposte sull’Ucraina, sui termovalorizzatori, sulla transizione green, sul riarmo in Europa. E l’Italia ha dei vincoli con i suoi alleati che sono da rispettare al di là del colore politico di chi governa. Mettere su casa insieme vorrebbe dire condividere la strategia delle alleanze internazionali, insieme sostenere la corsa di Biden contro Trump, insieme volere tante altre cose. Suun percorso simile sarebbe d’accordo perfino Calenda, convinto, dopo l’ennesima sconfitta, che Azione non potrà più andare da sola.
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