Via della Seta: dopo il G7 di Hiroshima uscire dal memorandum è una strada obbligata

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Il G7 di Hiroshima è concluso. L’Italia è l’unico Paese del G7 che ha firmato con la Cina il memorandum sulla via della Seta

Il G7 di Hiroshima, in Giappone, si è concluso con un preciso avvertimento alla Cina, anche se nel documento ufficiale non è stata esplicitamente menzionata: “Lavoreremo insieme per garantire che i tentativi di strumentalizzare le dipendenze economiche, costringendo i membri del G7 e i nostri partner, comprese le piccole economie, a conformarsi e a sottostare, falliscano e subiscano conseguenze”. E’ ovvio che quando si parla di “dipendenze economiche” il riferimento è alle politiche predatorie di Pechino.

G7: da che parte sta l’Italia

L’Italia è l’unico Paese del G7 che ha firmato con la Cina un patto di ferro – il memorandum sulla via della Seta – e ha tempo fino a novembre per disdirlo, altrimenti si rinnoverà automaticamente a marzo 2024 per altri cinque anni. Si tratta di una scelta destinata a segnare tutta la politica estera del governo in questa legislatura, e dopo il forte pronunciamento del G7 la decisione appare sempre più urgente, anche se la premier ha preso ancora un po’ di tempo, negando l’esistenza di pressioni da parte americana.

Anche se da Washington sono giunti in questi anni molti segnali inequivocabili per convincere l’Italia a recidere questo abnorme legame con Pechino. Posizione peraltro espressa da Fdi quando Conte e Di Maio siglarono l’accordo col presidente cinese.

G7: la strada da prendere

La strada pare comunque obbligata, ed è probabile che quando Meloni verrà ricevuta alla Casa Bianca, presumibilmente a luglio, porterà con sé in dote l’uscita italiana dal memorandum, che dal punto di vista geopolitico è stato un azzardo, perché ha messo in allarme i nostri alleati nella Nato, non portando gli auspicati benefici: l’export italiano in Cina infatti è cresciuto solo di tre miliardi, mentre le importazioni di merci cinesi in Italia hanno registrato un autentico boom: dai 31,7 miliardi del 2019 ai 57,5 del 2022. Il timore che frena il governo è quello di una rappresaglia commerciale, sulla falsariga di quanto Pechino ha fatto con Australia e Lituania, ma essendo un Paese del G7, i rischi per l’Italia sarebbero realisticamente minori.

La vera priorità in questo momento è di bloccare la penetrazione cinese nei nostri asset strategici, e in questo senso è emblematico il caso del Friuli, su cui i tentacoli cinesi si sono già allungati anche troppo: è accaduto con il Porto di Trieste, ed è accaduto con l’acquisizione di una società che progetta e realizza droni ad uso militare, oggetto di un’inchiesta della Guardia di Finanza di Pordenone. In entrambi i casi due obiettivi sensibili su cui aziende di Stato cinesi avevano messo gli occhi. E’ la strategia che il Dragone mette in campo da decenni: entrare in Italia mirando ad acquisire conoscenze tecnologiche e competenze in campo industriale, ma di recente c’è stato un preoccupante cambio di passo: gli obiettivi economici vanno di pari passo con quelli geopolitici e addirittura militari.

Le osservazioni di Fedriga

Non a caso il governatore Fedriga ha osservato che “oggi la logistica, i sistemi portuali nel loro insieme, sono divenuti un investimento di serio carattere politico” all’interno di “un sistema geopolitico estremamente complicato”, per cui i rapporti strategici possono divenire tali solo con Paesi amici o alleati. Una preoccupazione condivisa da Berlusconi, che prima delle ultime elezioni in Friuli aveva scritto: “Non possiamo lasciare la più strategica delle infrastrutture, il porto di Trieste, nelle mani non amichevoli del progetto cinese della Via della Seta. Naturalmente, la Cina è un interlocutore essenziale per un territorio che vive di commerci, ma il rapporto con la Cina non può essere di subordinazione strutturale”. Anche il Copasir aveva ribadito l’attenzione sui porti nella relazione annuale parlando delle infrastrutture portuali italiani come degli “asset strategici a rischio”.

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