La Trattativa perde pezzi: l’assoluzione di Dell’Utri e la lezione di Falcone

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Mentre l’ex senatore viene assolto e si chiede il processo ai tre ufficiali dei carabinieri, torna l’insegnamento del dubbio metodico del magistrato vittima di mafia

La Procura generale della Cassazione ha dato l’ultimo colpo, speriamo quello definitivo, al teorema giudiziario sulla trattativa Stato-mafia e ha respinto la richiesta di un nuovo processo contro l’ex senatore Marcello Dell’Utri, chiedendo per i tre ufficiali dei carabinieri assolti in appello un nuovo processo, ma di segno opposto a quello invocato dai pm siciliani. Ma nonostante trent’anni di fallimenti, continua la caccia a Berlusconi nel tentativo di dimostrare i suoi rapporti con la mafia e, attraverso improbabili pentiti o papelli, si cerca (inutilmente) di collegare la nascita di Forza Italia a oscuri disegni eversivi e alle stragi mafiose del ’93. Anche se non è mai stato trovato uno straccio di prova, c’è un circuito giudiziario-mediatico che non si arrende, e continua a dar credito a un pentitismo a gettone che ora vede protagonista Salvatore Baiardo, l’amico dei boss mafiosi Graviano, assurto agli onori della cronaca per aver preconizzato in tv l’arresto di Messina Denaro alludendo a una nuova, fantomatica trattativa sotterranea con lo Stato. Eppure Baiardo non può essere considerato né un collaboratore di giustizia né un testimone attendibile, visto che ha alle spalle una condanna non solo per favoreggiamento nei confronti di due condannati per strage come i fratelli Graviano, ma anche per calunnia e falso. Nonostante questo, viene ancora considerato una fonte degna di attenzione dalla procura di Firenze, che sta indagando per la seconda volta su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi del ‘93.

Ebbene sull’uso dei pentiti a supporto di inchieste basate su teoremi indimostrabili le teste d’ariete della magistratura militante dovrebbero imparare a memoria la lezione di Giovanni Falcone, precursore delle grandi inchieste di mafia, che ha sempre avuto come bussola il “dubbio metodico” come antidoto alla giustizia come ideologia. Falcone era convinto che la mafia non poteva essere ridotta a mero fenomeno criminale, individuando la sua specificità da un lato attraverso il collegamento strutturale con la società civile e col mondo della politica e, dall’altro, nell’adozione di un codice culturale proprio della tradizione culturale siciliana. Ma, pur essendo convinto dell’esistenza di un nesso mafia-politica, ha sempre escluso l’esistenza del cosiddetto “terzo livello” come un organismo che diriga e controlli l’attività della mafia. “Sopra i vertici di Cosa nostra non esiste nulla, esistono convergenze di interessi, talora anche inespresse, esistono poi ovviamente singoli concreti casi d’influenza su questo o quell’uomo politico. Ma non vi è affatto una connessione organica tra partiti o fette di partiti e le organizzazioni mafiose. Il fenomeno è molto più articolato e complesso e come tale molto più sfuggente alla repressione penale”.

Per Falcone, insomma, solo prove concrete e incontrovertibili avrebbero potuto consentire un processo “alla politica”, ferma restando l’esigenza di accertare e colpire zone grigie dove diverse sfere d’influenza criminale si interconnettono, ma sempre solo in presenza di riscontri probatori obiettivi e univoci e sempre scongiurando che il processo divenisse terreno di propaganda di tesi costituite. Un garantismo a tutto tondo, ispirato alla doverosa distinzione tra sospetto, indizio e prova, che gli provocò l’ostilità dei cosiddetti professionisti dell’antimafia, che arrivarono ad accusarlo di tenere nascoste nel cassetto carte scottanti su uomini politici. Ma la ragione stava tutta dalla sua parte, visto come sono finiti i processi ad Andreotti e Mannino.

Anche sull’utilizzo della collaborazione giudiziaria, Falcone diede un contributo straordinario sperimentando una metodologia di utilizzo dei pentiti così rigorosa da rendere compatibile il loro contributo con un processo penale ispirato al garantismo, basti pensare al meticoloso interrogatorio di Buscetta. Il suo metodo era ispirato al massimo rigore (“Perché il pentitismo si traduca in risultati utili per la giustizia sono essenziali l’esperienza, la capacità, la serenità, in una parola, la professionalità del giudice”) mentre dopo la sua morte troppe procure hanno usato i pentiti in modo spregiudicato, applicando quella giustizia ideologica a cui lui era sempre stato estraneo.

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