La coraggiosa lezione di Valditara sul 25 Aprile

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Se siamo un Paese che non è riuscito a mettere insieme uno straccio di memoria collettiva, forse la responsabilità non è di Berlusconi, di Salvini né tantomeno di Giorgia Meloni

“Il 25 aprile è una data fondamentale nella storia della nostra Repubblica: segna la sconfitta della dittatura fascista, il ritorno alla libertà, alla democrazia e la fine della guerra. È dunque un giorno di festa che deve essere celebrato nella gioia e nella concordia. Guai a farne un giorno di parte e di divisione adombrando il sospetto che forze democraticamente elette in Parlamento siano fasciste”. Lo ha scritto Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione e del merito, sulle pagine del Corriere della Sera, in cui ricorda che molti elementi del fascismo “si ritrovano nel comunismo e negli altri regimi totalitari che hanno insanguinato il Novecento”, e che oggi “l’antisemitismo si respira anche in quelle terre d’Europa dove è sempre più difficile dirsi e comportarsi da ebrei per via di un certo estremismo islamista, il totalitarismo si ritrova in quelle università che non ammettono un pensiero critico rispetto al politicamente corretto, l’intolleranza affiora in quella stampa che distribuisce patenti di fascismo a chiunque non garbi, e in quella politica che considera l’altra parte un nemico da delegittimare e non un avversario con cui dialogare pur da differenti posizioni”. Il ministro conclude il suo intervento affermando che “non è fascismo difendere le frontiere, celebrare l’identità di un popolo, considerare positiva l’idea di patria e proteggere gli interessi nazionali. Valori, questi, che sono largamente condivisi e praticati nelle democrazie occidentali. Occorre dunque fare attenzione che non si abusi del concetto di antifascismo considerandolo una patente buona per discriminare gli avversari politici e per evocare il pericolo di un improbabile ritorno alla dittatura”.

Il 25 aprile del 2009

Una presa di posizione molto coraggiosa, mentre la sinistra si appresta a celebrare il prossimo 25 Aprile ancora una volta all’insegna dell’intolleranza, avendo già fatto sapere che gli esponenti della destra che ha vinto le elezioni non sono graditi alla manifestazione di Milano. Chi dunque pensava che il voto del 25 settembre e il chiarissimo discorso alle Camere della premier Meloni avessero posto le basi per ritessere finalmente il filo della coesione nazionale e di una memoria condivisa aveva dunque preso un altro grande abbaglio. L’illusione della raggiunta pacificazione nazionale aveva già preso forma il 25 aprile del 2009 ad Onna, il paesino dell’Abruzzo martoriato dal terremoto, quando Berlusconi parlò col fazzoletto partigiano al collo e fece più o meno questo ragionamento: dobbiamo lasciarci definitivamente alle spalle gli ultimi lasciti di una Guerra Fredda che ancora oggi divide troppo spesso il Paese in schieramenti ideologici e non in legittime contrapposizioni che partano però da una coscienza comune e dal riconoscimento delle reciproche ragioni. Questo purtroppo non è successo, c’è stata spesso, invece, un’opposizione preconcetta e distruttiva, che qualche forza politica ha spinto fino al linguaggio dell’odio continuo e violento. Vedo ancora in giro troppo odio, e la storia recente ci ha insegnato che troppo spesso l’odio ha poi armato la mano dell’eversione. Di questo tutti dovremmo essere consapevoli e preoccupati”. Ci furono applausi di circostanza, ma la tregua durò pochissimo, perché la caccia a Berlusconi riprese più forte di prima, fino ai festeggiamenti davanti al Quirinale, due anni dopo, quando fu costretto a dimettersi da premier.

La manifestazione del ’94

E allora è utile ripassare la storia della seconda Repubblica per capire chi ha voluto che il 25 Aprile restasse una data divisiva nella storia del Paese, e tutti gli indizi portano inevitabilmente al riflesso pavloviano della sinistra di considerare quella data come un suo esclusivo feudo ideologico. Il Pd ha sempre rivendicato, ad esempio, la grande manifestazione del ’94, in cui la gioiosa macchina da guerra appena sconfitta democraticamente da Berlusconi scese in piazza non tanto per celebrare il giorno della Liberazione, quanto per inaugurare una nuova Resistenza contro il ritorno del fascismo capeggiato dal Cavaliere nero. Quattro anni fa la polemica sul 25 Aprile investì Salvini, allora ministro dell’Interno, che scelse di disertare i cortei della Liberazione preferendo andare a Corleone per solidarizzare con le forze dell’ordine in trincea contro la mafia, nella convinzione che fascismo e nazismo fanno solo parte di un terribile passato che non tornerà. Ma se avesse deciso di sfilare in un corteo sarebbe stato sommerso dai fischi e dagli insulti, come insegna la storia delle migliaia di manifestazioni celebrative con il presidio fisso delle bandiere rosse e con l’ostilità manifesta, spesso sfociata in violenza, nei confronti dei rappresentanti del centrodestra. Se siamo, tristemente, un Paese che non è riuscito a mettere insieme uno straccio di memoria collettiva, forse la responsabilità non è di Berlusconi, di Salvini e tantomeno di Giorgia Meloni, ma di chi per convenienza politica non esita a cancellare i faticosi passi avanti fatti sulla strada della riconciliazione nazionale – da Fini in poi la destra ne ha fatti eccome di questi passi – e ricaccia così indietro, ogni anno, le lancette della storia.

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