Di Silvio Berlusconi restano le ceneri: mai sintesi fu più scabra ed eloquente di questa fatta da Marcello Dell’Utri intervistato da Salvatore Merlo sul Foglio di venerdì 26 gennaio, ricorrenza dell’annuncio con cui, 30 anni prima, Silvio Berlusconi scendeva “in campo”. “L’Italia è il Paese che amo”, disse Berlusconi nel video diffuso su tutte le reti, pubbliche e private.
Con quell’incarnato rosa, effetto della calza color panna messa sulla telecamera dal suo operatore di fiducia, Gasparotto, l’imprenditore che voleva governare l’Italia come un’azienda traghettava dalle società che aveva costruito nell’agone politico. Trent’anni dopo restano le ceneri dell’uomo che sapeva farsi, e si fece, concavo e convesso, dall’eloquenza bulimica, sostenuta da un lessico e una sintassi eleganti nella loro spartana ripetitività.
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Con le sue reti televisive aveva cavalcato l’onda lunga di Tangentopoli, amplificato a dovere il discredito che le indagini portavano al sistema dei partiti, supportato dagli strepiti di Giuliano Ferrara che sacramentava contro la corruzione dilagante. Le cose andarono così per tutto il 1993. Con la discesa in campo, il “Cav”, appellativo subito popolare, rovesciò il tavolo e chiamò a raccolta gli elettori di quel pentapartito che lui, per interposte Tv, aveva crocifisso alla sua infamia.
Berlusconi ha avuto l’intuizione, questa sì geniale, di afferrare prima di altri che erano cambiati i canoni della lotta politica. Il post guerra fredda, dopo il crollo del Muro, la sera del 9 novembre 1989, aveva liberato forze rimaste sotterranee nella società e nelle istituzioni. Con un accumulo di veleni e di risentimento sociale che cercava solo il bersaglio verso cui indirizzarsi. Berlusconi lo indicò nei comunisti. I comunisti, cioè i loro eredi e co-eredi, lo indicarono in Berlusconi. Il “partito di plastica”, come si affrettarono a etichettare la creatura partorita dopo appena 4-5 mesi di gestazione, si rivelò di una plastica inossidabile. “Berlusconi – è ancora Dell’Utri che parla con Salvatore Merlo – è l’unico al mondo che ha monetizzato anche gli sputi che riceveva”. Concavo e convesso: saliva sul treno e indossava il cappello dei ferrovieri, dai vigili il casco protettivo, dalla polizia il berretto della polizia, sui ponteggi il casco del muratore. Andando a Messa, chissà che non si sia vestito da celebrante.
È stato un moderno e potentissimo Zelig. Lui, liberale oltre ogni misura, sapeva aderire alla psicologia della massa come solo i grandi dittatori del XX secolo hanno saputo fare. Da raffinato populista, sapeva che doveva assecondare gli istinti del popolo dando però l’impressione di guidarli, magari dopo averli eccitati. Il 25 aprile 2009, celebrando la Liberazione a Onna, martoriata dal sisma, si fece partigiano con un fazzoletto tricolore sul collo. Celebrò la ricorrenza con un discorso rimasto famoso per un particolare: per la prima volta a Berlusconi scappò di pronunciare parole di assoluta sincerità e di profonda adesione all’unità della nazione.
I suoi meriti? Ha dato il colpo definitivo al cosiddetto “arco costituzionale” e ampliato il campo di gioco alla destra fino ad allora tenuta ai margini. Ha pensato bene di costruire un sistema bipolare in cui ci fosse sempre un solo vincitore – lui, Berlusconi – e tutti gli altri, comunisti, tassatori, odiatori sociali, sconfitti. L’uomo con il sole in tasca e l’aria ilare e giocosa, sapeva tenere insieme gli alleati più distanti, si pensi a Fini e a Bossi, inventando soluzioni barocche e fantasiose purché al centro ci fosse lui con soddisfazione di tutti i satelliti che gli ruotavano intorno.
Ha cambiato la grammatica, i riti e le liturgie della politica. Non gli è riuscito di cambiare l’Italia come forse neanche lui voleva. L’idea bislacca, in lui ricorrente prima di impadronirsi degli strumenti della politica, era di governare l’Italia come un’azienda: tot di fatturato, tot di bilancio, tot di uscite, tot di entrate, tot di dividendi. Prima di capire che la voce importante nel bilancio di chi governa sono i dividendi da distribuire agli elettori che ti votano perché tornino a votarti anche la volta successiva.
La rivoluzione liberale, solo immaginata e mai realizzata, consisteva nell’indulgenza verso l’evasione fiscale. Diciamo meglio: il taglio delle tasse, difficile da realizzare per uno Stato già allora indebitato all’inverosimile, si poteva realizzare nella forma di un auto-taglio fiscale. Crescere e moltiplicatevi, secondo il detto evangelico, in Berlusconi voleva dire proprio questo: prendetevi quello che lo Stato non può darvi. In fondo, anche l’evasione altro non era se non un taglio potente della pressione fiscale, sia pure circoscritta e comunque esclusiva per il reddito fisso.
Occidentalista e, poco alla volta europeista, inserito nella famiglia dei popolari europei, Berlusconi ha calcato la scena internazionale con qualche patema d’animo di chi lo accompagnava nei viaggi internazionali. Non tanto per il cucù ad Angela Merkel, alla quale dedicò la battutaccia sull’eccesso della sfera, quanto per la disinvoltura con cui affrontava dossier delicati come quello sull’energia che portò l’Italia a dipendere per il 70% dal gas russo.
Sistemati nell’acquario i numerosi “delfini” di volta in volta designati (Fini, Alfano, Toti, non il lesto Casini uscito dal PdL prima di essere triturato con gli altri), di Berlusconi resta il guscio vuoto di Forza Italia. Per quel partito poco importa il risultato elettorale alle prossime europee, se 8 o 10%. Il punto, in politica, è sempre politico: i protagonisti sulla scena costruita e occupata da Berlusconi, sono persone in molti casi dignitose con un onesto curriculum politico e istituzionale. Ma questo non ne fa gli eredi politici. Troppo diverso è il peso delle singole persone, troppo modesta è la loro capacità di leggere gli eventi sulla scena per entrarci e guidarli secondo l’utilità e la convenienza del partito. Quel che di Forza Italia sopravvive al suo fondatore è solo per l’utilità che ne può ricavare Giorgia Meloni. Per il suo interesse a tenere in vita un alleato che può tornare utile per giocare alcune partite in Europa e nel Parlamento di Strasburgo. Per l’Italia a Meloni basta la sua forza elettorale.
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