Rifugiati climatici: ecco chi fugge dal clima che cambia

Secondo l'ultimo rapporto del Internal Displacement Monitoring Centre, 75,9 milioni di persone vivevano come sfollate interne alla fine del 2023

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L’emergenza climatica è un problema reale, ma nel diritto i “rifugiati climatici” non esistono. Eppure ogni anno milioni di individui abbandonano le proprie case a causa di uragani, inondazioni, siccità e innalzamento del livello del mare.

Secondo l’ultimo rapporto del Internal Displacement Monitoring Centre, 75,9 milioni di persone vivevano come sfollate interne alla fine del 2023. Queste persone sono definite come “rifugiati climatici”, un’etichetta ancora priva di riconoscimento giuridico nonostante la sua diffusione mediatica.

Chi sono i rifugiati climatici

La definizione di “rifugiato climatico” è in realtà impropria ed è diventata di uso grazie all’attenzione mediatica. Usando quest’espressione si fa riferimento a persone costrette a lasciare le loro case o le loro terre a causa degli impatti diretti o indiretti dei cambiamenti climatici.

Nel diritto internazionale, però, si parla di rifugiati quando un individuo ha attraversato una frontiera internazionale “a causa del fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per un’opinione politica“, cita la Convenzione sui rifugiati di Ginevra.

Attenendosi alla definizione giuridica, non esiste il “rifugiato climatico” in quanto non è riconosciuto l’ambiente come una causa di “persecuzione. Ma molti fattori sono intrecciati tra loro: se una persona decidesse di scappare dal proprio Paese a causa di una guerra causata dalla scarsità di una risorsa, come ad esempio l’acqua, avrà diritto a una protezione, tra cui l’asilo.

L’Europa non è al riparo

Anche il “vecchio continente” subisce gli effetti della crisi climatica. Solo in Italia nel 2023 le inondazioni in Emilia-Romagna hanno provocato 500mila sfollati e 14 vittime.

Allo stesso tempo, l’Europa è diventata nel tempo meta di chi fugge da altre regioni o Paesi: le tempeste nel Mediterraneo, come la Daniel in Libia (40.000 sfollati), spingono verso le coste europee, mentre l’avanzata del deserto nel Sahel alimenta rotte migratorie verso il Nord Africa e l’Europa.

Le proiezioni future sono allarmanti: la Banca Mondiale stima che entro il 2050 fino a 216 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare a causa dei cambiamenti climatici, con l’Africa sub-sahariana che potrebbe vedere il numero più alto di migranti climatici.

Le proposte in campo

Il caso più emblematico è l’Accordo Australia-Tuvalu del novembre 2023: per la prima volta, uno Stato ha garantito a un Paese di 11.000 abitanti il diritto di trasferirsi a causa dei rischi climatici. Intanto, corti nazionali e regionali iniziano a riconoscere il nesso tra crisi ambientali e violazione dei diritti umani.

Esiste anche un Fondo per le perdite e i danni, operativo a partire dalla COP28 di Dubai. Ma i 700 milioni iniziali sono una goccia nel mare. “Servono almeno 400 miliardi l’anno per i Paesi vulnerabili” denunciano le ONG.

Ma il punto più importante è quello mancante: non esistendo ancora strumenti giuridici vincolanti oggi, chi fugge da un disastro climatico non ha status legale internazionale.

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