La sentenza che ha condannato Filippo Turetta all’ergastolo per l’omicidio di Giulia Cecchettin ha lasciato il Paese sospeso, diviso tra il bisogno di giustizia e un senso profondo di impotenza. Quel caso ha toccato corde profonde, scosso coscienze, risvegliato rabbia, dolore, domande. E ha acceso ancora una volta i riflettori su una ferita aperta, che continua a sanguinare: il femminicidio. Ne avevamo parlato subito dopo la tragedia con la psichiatra Enrica Salvador, in questa intervista che cercava di spiegare perché la morte di Giulia ci avesse colpiti così nel profondo. Oggi torniamo da lei, per provare ad andare ancora più a fondo: dentro la mente, dentro la cultura, là dove, troppo spesso, nasce la violenza.
Nel suo lavoro clinico e nella sua esperienza professionale, come si spiegano le radici psichiche della violenza sulle donne, specialmente quella che nasce in ambito relazionale?
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Le radici psichiche della violenza sulle donne, ancorché nell’esperienza clinica e professionale, credo siano da ricercarsi nella cultura, e in modo particolare nella cultura del logos occidentale, quando la ragione è stata scissa dall’irrazionale ed è stata elevata a massima realizzazione di pensiero della specie umana, rinnegando e relegando l’irrazionale ad animalità, e ahimè facendo rientrare il pensiero femminile in questo enorme e tragico errore.
La sensibilità e creatività femminile è stata letta come un minus malato da perseguire e condannare. A seguire il cristianesimo ha confermato e rafforzato questa negazione dell’irrazionale come male da dominare e sottomettere.
L’irrazionale, il non cosciente, “pietra” preziosa che caratterizza la nostra specie e la differenzia veramente dal mondo animale, è stato svilito, negato e condannato ad essere brutale e inconoscibile, quindi senza soluzione. Queste credenze hanno escluso la donna dalla vita attiva della società e dalla possibilità di realizzare un’identità personale e professionale per millenni.
Se vediamo la storia nel lungo corso del tempo, quello che dobbiamo comprendere è che solo negli ultimi anni si è cominciato a vedere un cambiamento permettendo la conquista di una parità più o meno completa sui diritti civili, ma è ancora in forte ritardo un cambiamento di pensiero sull’immagine della donna, e sull’accettazione di una sua intelligenza diversa e talvolta superiore a quella degli uomini, proprio perché basata su una maggiore sensibilità e irrazionalità che le permette di cogliere il senso non manifesto delle cose, quel contenuto latente che non è intellegibile dalla razionalità. Ci vuole molto tempo per cambiare una cultura che va avanti da millenni, ma è ora di iniziare perché ci sono nuove teorie che dicono ben altro.
Cosa porta un essere umano a trasformare la sofferenza affettiva in distruttività verso l’altro, anziché in elaborazione o separazione?
In realtà mi sento di dire che, finché c’è la sofferenza affettiva, non c’è un passaggio all’atto nel senso del femminicidio, che come abbiamo visto è sempre accompagnato a una lucidità, ad una freddezza e una premeditazione anche meticolosa, come è stato per il caso Turetta.
Sino a che si mantengono gli affetti, anche se negativi, ossia quelli che emergono in più o meno tutti i rapporti e che spesso connotiamo come sadomaso, pur contenendo una violenza psichica il soggetto non arriva all’idea della soppressione dell’altro.
Per arrivare al passaggio all’atto occorre che l’affettività si spenga, che l’odio diventi freddo, il pensiero lucido ed impassibile, occorre cioè che avvenga un passaggio psicopatologico invisibile e quindi non identificabile dalla ragione, che è stato teorizzato da Massimo Fagioli pulsione di annullamento. Un meccanismo di difesa massiccio che elimina la sofferenza, ma insieme ad essa elimina anche la propria identità, la propria sensibilità, quella dimensione affettiva che ci permette di riconoscere l’altro come essere umano e non come un oggetto.
In questo meccanismo di difesa patologico c’è racchiusa la causa che conduce alla perdita degli affetti interumani. Questo impoverimento affettivo rende impossibile la separazione in questi soggetti, perché perdere l’altro significherebbe impazzire.
Ovviamente sappiamo bene che le delusioni d’amore accompagnano la vita della maggior parte di noi senza che questo si traduca in una follia omicida, e non perché siamo bravi a fare le separazioni, che peraltro sono la cosa più difficile da realizzare. È ovvio quindi che deve esserci dell’altro. Evidentemente nella storia personale di questi soggetti, in particolare nei primi mesi di vita, c’è un vissuto di forte delusione e di anaffettività da parte dei caregiver (solitamente della madre).
Tali delusioni li spingono a difendersi con massicce pulsioni di annullamento, indebolendo l’identità complessiva sin da quando si è molto piccoli. A volte quindi può essere necessario l’aiuto di una persona esperta e capace che aiuti a separarsi da un rapporto affettivo importante, e che conduca la persona verso una elaborazione lunga e solitamente dolorosa, ma che impedisce la pulsione di annullamento e quindi la caduta nella malattia.
C’è un punto in cui la violenza “inizia”? Dove andrebbe spostato lo sguardo per intervenire prima che esploda nel gesto irreparabile?
Recentemente L’Asino d’oro Edizioni ha pubblicato un libro per la sua collana Bios Psichè intitolato Giovani autori di reato. Delinquenti non si nasce, che già nel sottotitolo risponde alla sua domanda. Una risposta semplice e sintetica che nel dire tutto mette in crisi l’intero sistema istituzionale che ruota dietro al femminicidio: culturale, psichiatrico, governativo, legislativo, giudiziario, familiare.
Non c’è un unico anello debole, è un po’ tutto l’impianto che andrebbe rivisto.
Psichiatricamente parlando, l’attenzione andrebbe puntata sulla prevenzione primaria, del periodo perinatale intendo, per aiutare e curare, se necessario, le giovani madri a vivere il rapporto con il neonato in maniera il più possibile sano.
Ma prima ancora andrebbe fatta una rivoluzione culturale che smascheri il fallimento del pensiero filosofico e religioso sull’origine umana. Se si comprende che delinquenti non si nasce: si nasce sani, allora vuol dire che ci si può ammalare, e magari anche che questa malattia si può curare.
Ma insisto: la prima cosa da fare è accettare la teoria di una nascita sana, perché è solo attraverso questa lettura dell’essere umano che si può accettare di mettersi in discussione, perché in questa lettura c’è intesa anche la speranza di poterne venire fuori, ossia non c’è giudizio, non c’è stigma, e quindi non c’è condanna neanche per eventuali “responsabilità”, ma solo il suggerimento a chiedere la cura.
Cosa manca oggi nella formazione emotiva e relazionale dei ragazzi e delle ragazze? Dove dovrebbe intervenire la società: nella scuola, nella famiglia, nei modelli culturali?
Le rispondo con una domanda: cosa manca oggi nell’emotività relazionale del mondo adulto? Questa è la domanda, se partiamo dai ragazzi vuol dire che assolviamo il mondo adulto da quello che stiamo vivendo. Recentemente Netflix ha prodotto una serie televisiva, Adolescence, che parla proprio di un delitto efferato contro una ragazza minorenne operata da un giovane coetaneo, che propone dei quesiti e delle intuizioni interessanti sulle cause scatenanti tali delitti.
Evidentemente l’opinione pubblica vuole capire di più, non si accontenta più della resa all’ineluttabilità delle cose, dell’idea che la bestia alberga in ognuno e che può irrompere all’improvviso senza un perché e quindi senza una soluzione. Bisogna intervenire in tutti i campi detti prima: famiglia, scuola, cultura, psichiatria, giurisprudenza.
Secondo lei, si può fare prevenzione della violenza partendo dal mondo interno delle persone, non solo da misure educative o punitive?
Sì, certo, lo abbiamo detto prima: bisogna partire dal mondo interno delle persone. Le misure educative intese come lezioni frontali ai ragazzi, e aggiungerei agli adulti, lasciano il tempo che trovano, ma possono essere un inizio di riflessione per poi però diventare cura laddove è scattata la malattia.
In quanto alla punizione, Gino Cecchettin ha detto una cosa importante dopo la sentenza del processo Turetta sull’uccisione di sua figlia Giulia. Ha detto che è stata fatta giustizia, ma che come esseri umani dovremmo fare di più, dovremmo fare prevenzione, e che lui non si è sentito né più sollevato, né più triste rispetto al giorno prima o al giorno dopo.
E ha ragione: non è l’ergastolo che ci riscatta come società, anche se la recente approvazione del governo del disegno di legge che prevede l’inserimento nel codice penale del reato di femminicidio come fattispecie autonoma che porta all’ergastolo è stata a mio avviso importante. Ovviamente non per l’ergastolo, ma perché culturalmente si è ridotta la negazione – per non dire l’annullamento – sulla “normalità” che uccidere le donne non è poi così grave.
Fino a pochi mesi fa le leggi in vigore prevedevano l’ergastolo tout court solo se l’omicida era legato alla vittima dal vincolo del matrimonio, lasciando spazio, nel dramma, ad una discriminazione femminile come se certe donne fossero più donne di altre. Un pensiero culturale arcaico, inconcepibile al giorno d’oggi, ma fino ad ora evidentemente non così importante da chiarire e dirimere. È questo che intendo quando dico che la cultura circolante va trasformata e che chi la sostiene o semplicemente la mantiene così com’è deve prendersi le sue responsabilità.
Cosa direbbe oggi a una ragazza che ha paura di essere intrappolata in una relazione tossica? E cosa direbbe a un ragazzo che sente nascere in sé rabbia, dipendenza o rifiuto della libertà dell’altra?
Alle ragazze direi di rivolgersi al Centro antiviolenza, un servizio territoriale – gratuito – che funziona molto bene e che è in grado di aiutare le donne ad aprire gli occhi su quello che stanno vivendo, perché spesso c’è una inconsapevole complicità con l’aggressore.
Poi ovviamente dovrebbe iniziare un percorso di psicoterapia personale.
Ai ragazzi, direi di chiedere immediatamente aiuto, perché se c’è questa consapevolezza ci sono ampi margini per cambiare rotta.
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