L’onda populista di Trump si infrange in Canada. In Italia è diverso: i populisti sono al governo e all’opposizione. Meloni può navigare tranquilla

Il Commonwealth funziona meravigliosamente bene, meglio sicuramente dell’Unione europea: il liberale Mark Carney, governatore della Banca d’Inghilterra fino a due anni fa, sarà il nuovo primo ministro del Canada. Sconfitto il conservatore trumpiano Pierre Poilievre, rimasto senza seggio in Parlamento. Congratulazioni da von der Leyen, sicura che si potrà sviluppare “un commercio libero ed equo”. L’indiano Narendra Modi, Emanuel Macron, il segretario generale della Nato, Mark Rutte, e la presidente del Messico, Claudia Shenbaum fra i primi a congratularsi con Mark Carney. Il senso politico è chiaro: il trumpismo non ha varcato i Grandi Laghi e Trump deve cancellare ogni mira annessionistica sul Paese della foglia d’acero

7 Min di lettura

Ancora a fine gennaio Pierre Poilievre, vulcanico leader dei conservatori canadesi, si stropicciava gli occhi, incredulo, di fronte ai sondaggi che lo davano avanti di quasi 20 punti percentuali rispetto ai liberali al potere. Le dimissioni di Justin Trudeau, finito in minoranza nel suo partito, avevano giustamente galvanizzato Poilievre che stava già lavorando alla squadra di governo. Poi, il miracolo, il colpo di fulmine inatteso: Donald Trump, suo sostenitore, dà il via a una slavina di performances declaratorie capaci di stendere anche un toro. Si rivolge al Canada e ai canadesi prospettandogli il destino di 51/mo Stato dell’Unione, in pratica un’annessione bell’e buona. Poi arrivano i dazi contro il Paese della foglia d’acero e contro il Messico, cioè i due Paesi con i quali gli Stati Uniti, nel 1992, avevano siglato il Nafta (North American Free Trade Agreement), l’accordo che sanciva la nascita di un’area di libero scambio.

L’elefante nella cristalleria ha fatto danni irreversibili. Dalla fine di gennaio a ieri, Poilievre ha perso i 20 punti di vantaggio, e Carney ne ha guadagnati di suo almeno 7-8. Alla fine il rovesciamento di fronte è stato impetuoso: i liberali hanno recuperato in meno di tre mesi circa 28-30 punti. La spiegazione più immediata è semplice: un Paese ferito nella sua dignità, minacciato nella sua indipendenza e autonomia ha reagito nell’unico modo possibile e punti chi di fronte a quelle offese si era girato dall’altra parte facendo finta di niente.

Ci sono però ragioni più profonde e meno superficiali. Mark Carney, si diceva all’inizio, è stato governatore della banca centrale d’Inghilterra e in quella veste ha potuto misurare le conseguenze di quell’incredibile atto di chiusura al mondo quale è stato l’uscita dall’Unione europea. Conseguenze straordinariamente negative e non ancora del tutto dispiegate fino in fondo. La libertà dei commerci, senza scomodare Adam Smith e la sua “Ricchezza delle Nazioni”, è da sempre il motore della crescita e del benessere economico degli Stati e dei loro popoli. Piaccia o non piaccia, ogni alternativa alla libertà di commercio ha provocato disastri e guerre confermando l’adagio secondo cui “dove passano le merci non passano le armi”.

Non è ancora finita la giostra elettorale in Canada. A Carney, mentre scriviamo, mancano 4 seggi per raggiungere la soglia fatidica di 172, cioè la maggioranza più 1. È verosimile che dovrà allearsi con qualcuno dei partiti minori usciti pesantemente sconfitti. Sicuro è che sarà lui, Mark Carney, a fronteggiare Donald Trump. Compito che appariva sfidante ancora due mesi fa prima che si sgonfiasse velocemente. Quale lezione si può ricavare dal voto canadese e quali prospettive si aprono alle forze democratiche in Europa?

È bene prima di tutto evitare facili illusioni, immaginando che quanto è accaduto in Canada possa ripetersi automaticamente altrove. Per molte ragioni: quel Paese confina fisicamente con gli Stati Uniti, proprio come il Messico, e si trovava sotto una minaccia di annessione che, dopo il voto, si è dissolta come neve al sole, ammesso che fosse realistica anche prima del voto. Il Canada ha una tradizione liberale quasi secolare. Il premier uscente, Justin Trudeau, è figlio d’arte, essendo stato suo padre, Pierre, premier liberale per tutti gli anni Novanta. Il padre godeva fama di liberale a tutto tondo (oltre che di sciupafemmine incallito, come ben sapeva e sopportava sua moglie). La dinastia Trudeau era l’estrema espressione di una “società aperta” come e forse più degli Stati Uniti. Sistemata una volta per sempre la disputa sulla lingua ufficiale (il Canada è anglofono e francofono, essendo stato colonia di entrambe le potenze fra ‘700 e ‘800), la società canadese è l’esempio di un melting pot riuscito, nonostante non siano mancate tensioni razziali sul finire degli anni Novanta.

Il voto di ieri ci consegna due certezze: il trumpismo è un fenomeno resistibile. Attenzione, con ciò non significa che sia una tigre di carta. Significa, però, che le smarronate del suo autore hanno un impatto forte nelle sue immediate vicinanze, per spegnersi via via che la sua eco si perde in cerchi concentrici sempre più larghi. Dunque l’effetto Trump è destinato a sgonfiarsi una volta attraversato l’Atlantico. Si veda, per esempio, la coltre di silenzio calata sulle forze sovraniste in Europa, in particolare in Francia e in Germania. Ma non in Inghilterra, dove un Nigel Farage arrembante viene dato in forte vantaggio su laburisti e conservatori. Vantaggio teorico, visto che le urne si sono chiuse appena l’anno scorso.

Diverso, molto diverso è il caso dell’Italia. Per due ragioni: siamo l’unico Paese in Europa che ha forme populiste sia al governo sia all’opposizione. L’altra ragione è da vedere nella navigazione abile fin qui tenuta da Giorgia Meloni, attenta a non lasciarsi intrappolare nella tenaglia Ue-Usa. È una strategia che assorbe molte delle sue energie ma è anche una scommessa politica “alta” se è vero che si è data la salvaguardia dell’unità dell’Occidente come traguardo, difficile fino a qualche settimana fa, ma non impossibile dopo i recenti sviluppi che hanno reso Trump più prudente sulla risoluzione della guerra ucraina e più disponibile a negoziare sui dazi.

La presenza di due forze populiste – Lega e M5S – è diventata nel tempo una sorta di cerchio che blocca il quadro politico. E fra Schlein e Meloni è la prima a soffrirne di più. Ha scelto di bloccare la strategia del Pd nell’inseguimento a Conte, così consegnando al leader Cinquestelle un potere enorme di veto sui contenuti e sul modo di fare opposizione, senza averne in cambio nessuna assicurazione di future alleanze. Non è difficile scorgere in tutto questo una qualche vocazione al suicidio politico e un reale e insormontabile ostacolo a costruire una qualche credibile alternativa al centrodestra.

© Riproduzione riservata

Condividi questo Articolo