Il diritto alla salute e l’accesso alle cure garantito universalmente a ogni persona è l’architrave del sistema di welfare costruito in Europa dopo il 1945. Sarebbe però sbagliato vedere in esso il requisito per definire un Paese come sicuramente democratico, perché gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, per dire, sono sicuramente grandi democrazie pur avendo sistemi sanitari completamente diversi da quelli europei e una porta stretta per l’accesso alle cure. Da qualche anno i sistemi sanitari, e quello italiano non sfugge, sono messi a dura prova nella loro sostenibilità per le ragioni più diverse, prima fra tutte l’invecchiamento della popolazione, con il conseguente aumento delle prestazioni sanitarie per quelle fasce d’età più fragili. I flussi migratori hanno poi ulteriormente gonfiato la spesa sanitaria, come è giusto che sia perché garantire il diritto alla salute, oltre che un atto umanitario, è anche il primo step di accesso a una cittadinanza piena e consapevole.
Fra un aumento difficoltoso dei finanziamenti e un più realistico mantenimento della loro quota percentuale sul Pil, il governo Meloni ha scelto una terza via: il taglio in termini nominali del finanziamento al sistema sanitario. Si tratta di una decisione che mette in serio rischio il carattere “universale” delle cure e complica terribilmente la vita ad alcuni milioni di italiani, molti dei quali hanno rinunciato già da qualche tempo a ogni forma di terapia. Il crollo della medicina preventiva, vero argine alla spesa sanitaria e alle terapie costose di malattie diagnosticate in ritardo, è la cartina tornasole di un SSN sulla via del collasso finale.
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È necessario, a questo punto, aprire sul tavolo la mappa del sistema sanitario e fare un’opera di sano realismo sui troppi punti critici che si sono accumulati nel tempo. La regionalizzazione della sanità decisa con la legge 833 del 23 dicembre 1978 è stata considerata una conquista di grande rilievo sociale. A distanza di 46 anni è lecito nutrire più di un dubbio. Chi difende quella riforma ne parla come se, prima di allora, ci fossero persone abbandonate o raccolte per strada in gravi condizioni perché non potevano permettersi una visita medica o le terapie necessarie. Ovvio che non era così, non è mai stato così.
Quella riforma fu approvata dal IV governo Andreotti la cui maggioranza era composta da Dc, Psi, Psdi e Pri mentre sul voto di fiducia ottenne l’astensione del Pci. Era il governo di solidarietà nazionale, nato il 13 marzo 1978 è caduto il 21 marzo 1979. Al momento di votare la riforma, il Pri di Ugo La Malfa decise per l’astensione alla Camera (al Senato, votò a favore poiché equivalendo l’astensione a un voto contrario avrebbe aperto la crisi di governo). Alla Camera fu Susanna Agnelli a spiegare le ragioni dell’astensione, prima fra tutti “l’assenza di limiti” nella spesa e “la mancata attribuzione di responsabilità specifiche agli amministratori”. Il Pri vedeva in quella legge l’espressione di “principi e obiettivi di grande rilevanza sociale ma che difficilmente avranno pratica attuazione”. Si lamentava poi che “la mancata garanzia di professionalità del medico porterà alla burocratizzazione dei medici, col defilamento degli elementi migliori verso la libera professione”.
Se non tutta, una buona parte di quella profezia si realizzò da lì a qualche anno. La regionalizzazione del sistema sanitario, completata nel 2001, ha visto gonfiarsi la spesa in misura esponenziale, ma una spesa su cui lo Stato non aveva alcun potere di controllo e indirizzata in larga misura secondo criteri non sempre aderenti alle necessità delle Asl (all’epoca erano le Usl). Gli organici degli ospedali esplosero, con l’assunzione di portantini, amministrativi e in genere di figure non sempre indispensabili per curare i malati. Nei CdA delle Asl arrivò la lottizzazione e ogni partito rivendicava la sua fetta di torta (tot medici, tot portantini e tot amministrativi).
La degenerazione gestionale si fece progressiva e inarrestabile. Esempio su tutti è la ripartizione dei vari capitoli di bilancio fra le diverse Regioni: se al Nord la spesa per il personale sanitario assorbiva il 50-55% del bilancio, nelle Regioni del Sud quella percentuale saliva all’85-90%, e restavano poche briciole per l’acquisto di presidi elettromedicali o per l’ammodernamento degli ospedali. La legge di riforma fissava dei criteri per il riparto della spesa fra le acuzie (emergenza sanitaria) e i “cronici” (malattie degenerative), assegnando alla prima categoria il 75%, il 25% ai “cronici”. Due sole Regioni hanno rispettato dal primo momento quelle quote: Emilia Romagna e Toscana.
Ha funzionato là regionalizzazione del sistema sanitario? Dal punto vista dell’universalità delle terapie la risposta può essere affermativa con alcune eccezioni. Se si guarda all’efficienza gestionale del sistema, sono senz’altro prevalenti le ombre. Come può essere riformato il SSN? Non certo tagliando il fondo annuale. Lo Stato dovrebbe prevedere criteri di premialità per quelle Regioni che sanno amministrare meglio di altre le risorse pubbliche, salvaguardando per tutti i Lep. Immaginare il commissariamento di quelle Regioni che non rispettano i parametri di spesa oppure si scoprono inadempienti sulla pianta organica. Certo è che limitarsi a invocare soltanto più soldi da spendere senza sapere come poi vengono effettivamente spesi non da sollievo a quei milioni di italiani in coda per una Tac. La politica brancola nel buio e le persone vengono deprivate di un diritto costituzionale.
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