Niente, alla fine ha ceduto al richiamo del partito e, almeno questa volta, non si dica dei cacicchi. Schlein era sul l’unto di adeguarsi alla brandizzazione della politica, apponendo il suo nome sul logo del Pd. Rimane in ogni caso il malumore della minoranza e di qualche dirigente a lei vicino sulla sua candidatura al Parlamento europeo per la quale Romano Prodi ha confermato la sua contrarietà considerando una “ferita” alla democrazia le candidature “civetta” di leader che sanno con certezza di non assumere mai l’incarico.
Le pressioni dentro il partito perché recedesse dal proposito di apporre il nome sul simbolo sono state sicuramente forti. Lo si deduce dalle dichiarazioni di soddisfazione venute nei minuti successivi alla notizia: da Bersani a Nardella, al presidente del Consiglio regionale della Toscana, tutti plaudono e giudicano “saggia” la scelta di non brandizzare il logo del Pd. È comprensibile anche l’ironia di Fratelli d’Italia, che in uno dei canali social posta un commento confrontando il simbolo di FdI con il nome di Meloni e quello del Pd senza il nome di Schlein. “C’è chi va fiero del proprio leader e chi no…”. Ironia scontata ma, a ben vedere, anche piuttosto banale. La verità che fra mille contorsioni e ripensamenti, il Pd si conferma, fra le grandi forze politiche, l’unica strutturata e non personalizzata. Con le radici saldamente nella democrazia novecentesca. Che non vuol dire, però, avere una strategia politica solo per questa ragione.
Schlein deve aver riflettuto sulle controindicazioni che venivano da una brandizzazione del logo. Per esempio, come avrebbe potuto legittimare la contrapposizione frontale alla riforma del premierato una volta accettato di identificare la sua persona con il partito? Perché mai, nel caso di un risultato mediocre alle europee, accollarsi in solitudine la sconfitta? Meglio condividere l’eventuale risultato positivo, almeno in termini di tenuta elettorale, piuttosto che pagare il conto in prima persona in caso di sconfitta.
Alessia Morani, europarlamentare ricandidata, si era appellata alla tradizione del simbolo sempre senza nome tranne quando, nel 2006, Veltroni appose il suo ma era una sfida tutta bipolare fra lui e Berlusconi. Rinunciando ad apporre il suo nome, Schlein ha inteso in questo modo sminare almeno in parte il terreno del confronto interno. Le critiche alla sua gestione si fanno meno vaghe col passare del tempo e, in particolare, sta montando la polemica per la rincorsa affannosa del M5S. Anche su questo versante, Schlein cerca da qualche tempo di aggiustare i toni e la direzione di marcia. Le stilettate quotidiane di Conte non passano più inosservate e le repliche si fanno sempre meno concilianti. Non è la rottura, ovviamente, perché anche in politica vale l’adagio “chi rompe paga e i cocci sono suoi”. E i cocci nel Pd non mancano. Per Schlein è il momento di consolidare quel minimo di spirito unitario per affrontare il voto europeo. Perché dopo il 9 giugno, contate le schede, si aprirà inevitabilmente un confronto molto serrato. Con la minoranza interna e quei leader come Guerini e Delrio, temporaneamente ai margini, pronti a chiedere conto di un eventuale risultato mediocre ma, soprattutto, pronti a mettere in discussione la linea politica disegnata solo in direzione del M5S.
Per Schlein si tratta di presentarsi al dopo voto con un minimo di chiarezza sulla strategia del partito. L’opposizione al premierato è la vera grande sfida. Vincerla presuppone una ritrovata capacità del Pd nel tessere alleanze con le altre opposizioni, certo, ma soprattutto riuscire a far emergere le perplessità che covano in non pochi settori della destra. In una parola, Schlein deve fare politica.