Non è esagerato definire il voto di giugno uno spartiacque nella storia dell’Unione europea. Nessuno può negare che esso rappresenti un bivio per le ambizioni degli europeisti e un’occasione ghiotta per i sovranisti e per quanti, a diverso titolo, vogliono tirare il freno sulla via del federalismo. Sugli uni e sugli altri però incombono gli stessi inquietanti interrogativi: come fronteggiare le pressioni disgregatrici sprigionate dall’aggressione russa all’Ucraina? Gli europeisti di provata fede non hanno dubbi: sostenendo Zelenski, fornendogli armi e assistenza finanziaria.
La sua battaglia è anche la nostra, ci riguarda e riguarda il presente e il nostro futuro. Se l’Ucraina dovesse uscire sconfitta per il tradimento dell’Europa, allora la sua sorte diventerà anche la nostra. Tutt’altra musica è quella che suona il campo sovranista. La guerra va fermata quali che siano le richieste di Putin: se necessario, si lasci smembrare l’Ucraina. I sovranisti soffiano sul fuoco della stanchezza delle opinioni pubbliche, sull’ipotesi, al momento peregrina secondo gli ultimi sondaggi, di una vittoria di Trump, il che segnerebbe la fine della Nato. Questo, al momento, è il quadro. In movimento sotto certi aspetti, perché il voto europeo costringerà i partiti europeisti ad annacquare le loro posizioni rispetto a un’opinione pubblica stanca, al contrario le forze sovraniste hanno gioco facile ad esasperare la richiesta di chiudere il conflitto non importa a quale prezzo per il popolo ucraino.
La presidente Meloni non ha problemi per il voto europeo. Ne ha, semmai, di abbondanza visto che le aspettative di un successo elettorale scontato inducono gli osservatori ad alzare ogni giorno di più l’asticella. Per lei qualche problema si manifesterà sicuramente dopo il voto. Meloni si trova in una singolare posizione in Europa. Leader riconosciuta del gruppo dei conservatori, terza forza al Parlamento europeo, non ha mai negato l’amicizia che coltiva da tempo con il “padrone” dell’Ungheria. Orbán è un leader astuto e quando la settimana scorsa ha annunciato che il suo partito, Fidesz, entrerà nel gruppo conservatore al Parlamento europeo ha lanciato deliberatamente un sasso nello stagno per saggiare le reazioni dei popolari, sapendo che avrebbe creato qualche imbarazzo a Meloni. Così è stato. Perché martedì 6 febbraio fonti del Ppe hanno posto l’altolà: se Ecr imbarca Orbán non ci sarà nessun allargamento della maggioranza attuale ai conservatori.
Meloni sa di essere il solo premier europeo insieme sovranista e strenuo sostenitore dell’Ucraina. Fosse per Le Pen, Salvini o Abascal, i carri armati russi sarebbero già a Kiev per fare rifornimento. Insomma, Meloni deve scontare più di una scomodità per la contraddizione fra la strategia delle alleanze al Parlamento europeo e la linea da lei scelta per il governo italiano.
Chi invece si trova in mezzo al guado in Europa e non intende uscirne è Giuseppe Conte. L’ambiguità politica dei Cinquestelle, che la sola Schlein considera, al pari del suo predecessore Zingaretti, una forza di sinistra, ha fruttato finora un discreto bottino elettorale consentendo a Conte di prendere il pieno controllo del partito. Alla solidità dei consensi ha contribuito non poco la vera e propria sudditanza politico-culturale del Pd. Schlein non ha esitato ad annacquare la linea in politica estera, sfumandola sugli aiuti alll’Ucraina fino ad appannarla sul conflitto in Medio Oriente.
Conte sente a tal punto di controllare il rapporto con il Pd da concedersi la libertà di accusare platealmente Elly Schlein di sposare una linea “bellicista”. Per la prima volta c’è stata una reazione dal Pd, ma blanda e vaga abbastanza perché Conte possa pensare a nuovi affondi da qui a giugno. Il leader Cinquestelle si muove con la disinvoltura e il cinismo di chi sa di aver messo il guinzaglio al principale partito di opposizione.
Non avendo valori né principi né ideali da difendere, Conte può muoversi sulla scena politica con la stessa libertà con cui si muoveva Guglielmo Giannini, il leader dell’Uomo qualunque che ebbe fortuna tra la fine degli anni ‘40 e l’inizio degli anni ‘50. Giannini venne agevolmente domato, fino a sparire dalla scena, da Alcide De Gasperi. Per Schlein, che di De Gasperi non è neppure lontana parente, le cose sono più complicate. È vero che al M5S non è finora riuscito di trovare un gruppo che li accogliesse in Europa. Hanno bussato a tutte le porte ma nessuna si è aperta. Una simile circostanza dovrebbe indurre i dirigenti del Pd a farsi qualche domanda supplementare sulla vera natura dei Cinquestelle.
A complicare la partita a sinistra, però, è prima di tutto l’impoverimento della linea politico-culturale del Pd. La rinuncia a rinnovare una chiara e netta strategia riformatrice, uscita abbastanza appannata dagli anni delle responsabilità di governo, ha provocato l’attuale sbandamento dei gruppi dirigenti. Le voci isolate ascoltate in queste settimane – da Castagnetti a Fassino, da Guerini a Delrio – sono le voci di quella generazione che si era spesa nel 2007 per dare vita al Pd, il partito che Veltroni voleva “a vocazione maggioritaria” ma che invece apparve subito al suo eterno rivale D’Alema “un amalgama mal riuscito”.
Schlein si trova a gestire, con le qualità che non tutti le riconoscono, i troppi anni di incuria in cui è stato lasciato il partito dopo le gestioni non esaltanti di Nicola Zingaretti ed Enrico Letta. Per lei il voto europeo di giugno appare già oggi come l’ultima chiamata: fallita quella il Pd dovrà trovarsi un nuovo gruppo dirigente ma, ancora più importante, dovrà reinventarsi e trovare un nuovo ubi consistam se non vuole che Meloni diventi inquilina permanente di palazzo Chigi.
© Riproduzione riservata