Silvio Berlusconi avrebbe fatto carte false per vederlo con la casacca di Forza Italia. E la non breve durata del loro colloquio, ad Arcore, il 6 dicembre 2010, è la conferma di quanto spasmodico fosse l’interesse dell’allora presidente del Consiglio per quel ragazzo di appena 35 anni, sindaco di Firenze dopo essere già stato presidente della Provincia. Lo vedeva sveglio, reattivo, forse anche troppo, ma ne scoprì anche la risolutezza e la coerenza politica: non era cosa per quel giovane “popolare”, rampollo di una famiglia democristiana di Rignano sull’Arno. Era un osso duro già allora, Matteo Renzi. Sapeva, perché è l’abc per un cattolico che fa politica, che non si può mai esser padroni in casa d’altri. Appendere il cappello in casa di Berlusconi, poi, equivaleva se non rinunciare quanto meno a mettere la sordina ai propri convincimenti, ai valori per i quali da giovane scout aveva capito la bellezza della politica.
Altri democristiani, Casini e Mastella, avevano avuto la stessa prudenza di Renzi. Si erano alleati con Forza Italia, sempre però serbando la propria autonomia, con piccole formazioni politiche. E pronti a lasciare il tycoon quando la morsa del Partito della Libertà divenne per loro insopportabile.
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Ma chi era davvero quel giovane sindaco che sfidò Bersani alle primarie del centro-sinistra, nel 2012, per uscirne sconfitto? E che si ripresentò alle primarie del Pd, l’anno successivo, per vincere a mani basse, sempre contro Bersani? Era un politico decisamente anomalo, e tale è rimasto, per i riti e le liturgie della sinistra. Diceva senza perifrasi e giri di parole che un’intera classe dirigente era da “rottamare” (espressione fortunata per qualche tempo, prima che gli tornasse indietro come un boomerang con il referendum del 2016) e da riformare la piattaforma programmatica del Partito democratico. Se tutti i riflettori si accesero sulla rottamazione, poca luce venne riversata sugli atti di riformismo (molto anglosassone nella sua concretezza) messi in campo.
Ma qui non vogliamo trattare le troppe cose annunciate, le molte realizzate e le poche trascurate da Matteo Renzi, presidente del Consiglio. Enrico Letta, persa per sempre la serenità quel giorno di febbraio 2014, quando impietrito e frastornato gli passò la campanella a palazzo Chigi, deve aver brindato per tutta una notte del dicembre 2016 quando Renzi, perso il referendum costituzionale, si presentò a palazzo Chigi e, con la moglie Agnese a distanza ma a favore di telecamere, annunciò le sue dimissioni. Due anni e mezzo al governo, il quarto per durata nella storia repubblicana, lo avevano consacrato sul piano internazionale come il più giovane e brillante presidente del Consiglio, più giovane di 4 anni del canadese Justin Trudeau.
Uscito dal Pd nel 2019, si porta dietro un drappello di fedelissimi, altri preferiscono non seguirlo in quella che si annunciava come traversata del deserto senza la certezza di un oasi per il ristoro. Renzi però smuove la politica, il Parlamento è per lui una sorta di circo in cui eseguire evoluzioni acrobatiche da togliere il fiato. Quando nell’estate del 2019, con qualche mojto di troppo, Salvini annuncia che chiederà i pieni poteri, ecco che si prepara una crisi al buio con le urne come esito inevitabile. Per il trapezista di Rignano, però, nulla è mai scontato. Ha combattuto tenacemente il governo giallo-verde, ha denunciato la superficialità e la disinvoltura di Giuseppe Conte che lasciava scorrazzare i soldati russi in lungo e in largo per l’Italia, ma al dunque Renzi richiude le urne e convince il Pd, suo ex partito, a mettere in piedi il governo giallo-rosso. Che lui sbaraccherà nel 2021 a favore di un esecutivo chiamato tecnicoma in realtà politico come pochi prima. Da Draghi a Meloni: quelli, come Tajani e Salvini, che hanno impallinato l’esecutivo si sono ritrovati a mezzadria con Giorgia Meloni.
Renzi si trova a suo agio. Dal primo intervento in Senato, profetizza una navigazione tranquilla per la premier, almeno fino alle europee di giugno. Poi si vedrà. Se Schlein e Conte si attardano sulle minuzie, come può essere misurare il grado di antifascismo di questo o quel ministro, Renzi ha scelto un’altra strada. Quella di contestare punto per punto la presidente del Consiglio, inchiodarla su quelli che lui ritiene i fallimenti in Europa (dal Patto di Stabilità, approvato in una versione iugulatoria rispetto alla proposta della Commissione) sulla polvere raccolta nella nomina (vedi la Banca europea degli Investimenti) o sulla mancata ratifica del Mes. E che fine ha fatto il piano degli asili? E Renzi preconizza, dopo il voto europeo, una manovra di aggiustamento dei conti da stimare in 15-20 miliardi.
Ha le sue impuntature, non c’è dubbio: non ha mai spiegato la sua giravolta sul salario minimo, al quale era favorevole al momento di sottoscrivere l’intesa con il gemello eterozigote Carlo Calenda. Una volta separati, con litigi degni della “Guerra dei Roses”, se le sono dette di crude e di cotte. Calenda gli rinfaccia le ricche parcelle di conferenziere ricevite da altri governi? Lui non si scompone: è vero, ammette, e denuncio ogni euro al fisco. Nessuna legge lo vieta. È un atteggiamento disinvolto? È povera la sua sensibilità istituzionale? Renzi non si tira indietro. Ha accettato la gogna giudiziaria che ha ferito ma non distrutto suo padre e sua madre e ne ha ricavato un libro. Certo, ha anche esagerato un po’ intravedendo un nuovo Rinascimento nel regno saudita di Bin Salman. Altrettanto certo è che non ha sottoscritto protocolli con la Cina, come ha fatto Conte con La via della Seta. Quattordici anni dopo l’incontro con Berlusconi e il suo rifiuto di entrare in Forza Italia, Renzi si ritrova a coltivare un progetto mai dichiarato: prendersela, Forza Italia. Una brutta botta alle europee per Tajani e chissà che non gli riesca l’ennesimo colpo.
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