In un libro che ha fatto epoca, pubblicato nel 1992 e intitolato La fine della storia, lo scrittore giapponese Fukuyama annunciò al mondo che il crollo del muro di Berlino e il successivo collasso dell’Unione Sovietica, con l’implosione di tutto l’universo comunista, avrebbero significato l’inizio di un’era contrassegnata dal trionfo delle democrazie, del capitalismo occidentale e del progresso, e che – dopo i lunghi anni della Guerra Fredda – sarebbero state estirpate definitivamente le cause dei conflitti globali. La parola guerra, insomma, sarebbe stata cancellata dal destino dell’uomo. Tutto molto bello, ma si trattava semplicemente di un sogno che si infranse prima di tutto sulle Torri Gemelle di New York, con la forza dell’apocalisse, l’11 settembre di ventidue anni fa. Per la prima volta gli Stati Uniti venivano attaccati e colpiti dentro i loro confini, per di più nel cuore della città simbolo dell’Occidente. Altro che fine: quel giorno fu l’inizio di una nuova storia con un mondo che smarrì d’improvviso tutte le sue certezze sia politiche – prima c’era un equilibrio del terrore garantito dalla reciproca deterrenza nucleare, ma c’era – sia economiche, perché la globalizzazione ha profondamente modificato le regole dei mercati.
L’attacco alla Torri Gemelle portò altre guerre – l’Afghanistan, l’Iraq – e svelò la strategia egemonica del fondamentalismo islamico che aveva pianificato da tempo quella guerra fra le civiltà prevista e descritta da un altro grande saggista, Samuel Huntington. È su questo snodo cruciale che si intrecciano la storia mondiale e quella di Oriana Fallaci, la cui guerra a tutto tondo contro la rinascita islamica era in realtà iniziata molto prima della trilogia uscita negli anni successivi all’undici settembre, che segnò nel bene e nel male gli ultimi anni della sua vita.
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Il campanello d’allarme, nella testa di Oriana, era scattato già nei giorni del ritorno trionfale di Khomeini in Iran, salutato come l’annuncio di una nuova era di libertà e di giustizia dall’intellighenzia culturale europea, malata allora come oggi di antiamericanismo viscerale. Per quei grandi pensatori occidentali, a partire da Foucault e Gunther Grass, il solo fatto che la rivoluzione islamica ripudiasse totalmente i fondamenti della nostra civiltà era per sé stesso la premessa di un futuro migliore per l’umanità. Oriana Fallaci, a differenza degli intellettuali del tempo proni al khomeinismo, si precipitò a Teheran, si fece ricevere dal grande ayatollah e nel ’79 scrisse l’intervista più coraggiosa e dissacrante di tutta la storia del giornalismo. Non solo si strappò il burqa davanti a Khomeini, ma lo incalzò con una serie di argomentazioni che avrebbe poi ripreso e ampliato ne “La Rabbia e l’orgoglio”, ne “La forza della ragione” e nell’Intervista a sé stessa.
Ma cosa fu questo Risveglio islamico che trovò in Bin Laden il suo nero profeta? La definizione più acuta la fece Magdi Allam: “Non possono esserci dubbi sulla dimensione bellicosa, espansionista, totalitaria e messianica di una dottrina religiosa e politica che incarna l’essenza di un male intrinseco all’Islam sin dai suoi esordi”. Fallaci sosteneva che l’Islam è uno solo, è un’unica grande palude, ma la realtà è più complessa, e lo dimostra il fatto che le prime vittime dei fondamentalisti sono stati proprio i musulmani accusati di apostasia. Basti pensare all’Algeria, dove negli anni Novanta ci sono stati duecentomila musulmani uccisi dai terroristi islamici. Oriana aveva invece colto pienamente nel segno nell’accusare l’Occidente, e soprattutto l’Europa, di essere preda di un relativismo valoriale, culturale e religioso che spalancava le porte all’invasore. Chi non crede più in nulla, chi ripudia le proprie radici, chi si illude – parole di Oriana – che tutti i gatti siano davvero bigi, non rende un buon servizio né a sé stesso, né ai propri figli, né all’interesse nazionale.
L’Italia, in questo senso, dovrebbe far tesoro delle esperienze altrui, guardando a cos’è accaduto nei Paesi che ci hanno preceduto sul piano dell’accoglienza agli immigrati islamici, come la Gran Bretagna, l’Olanda, la Francia e la Germania che oggi si ritrovano in una serie di ghetti etnici, confessionali e identitari in cui ci si sente antagonisti e nemici del resto della società. I quattro ragazzi che il 7 luglio del 2005 si fecero esplodere nel centro di Londra erano cittadini britannici nati in Gran Bretagna e che immaginavano con quel loro efferato atto di essere degni miliziani della nazione islamica in guerra contro la Gran Bretagna e ritenevano che massacrando cittadini britannici avrebbero conquistato il paradiso islamico. Ma lo stesso si potrebbe dire dell’assassino del regista Theo Van Gogh ad Amsterdam. E dunque, sarebbe un errore – come pretende la sinistra – svendere la nostra cittadinanza senza pretendere non solo diritti, ma anche e soprattutto doveri da chi arriva in Italia.
Non c’è alternativa a un modello di convivenza sociale in cui ognuno è tenuto a rispettare delle regole, a imparare la lingua italiana adeguatamente, ad aderire a dei valori comuni, a sentirsi parte di un progetto comune di nazione. Per questo va fatto di tutto per sradicare quella realtà ideologica che c’è anche in Italia e che viene alimentata in tutte quelle moschee dove si predica la distruzione di Israele, si inneggia al terrorismo, all’odio contro l’Occidente, al grande califfato islamico e dove si considera la donna come un essere inferiore. Non voler vedere queste realtà potrebbe rivelarsi un tragico errore, e se non vogliamo che si avveri la profezia di Oriana, quella di Eurabia, dobbiamo uscire dall’illusione multiculturale e smettere di bearci dietro parole d’ordine politicamente corrette come “subito il voto agli immigrati“. La strada dell’integrazione, come dimostra la storia recente dell’immigrazione musulmana in Europa, è lunga e accidentata. Speriamo che non sia anche impossibile, come sosteneva Oriana.
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