Due o tre cose che non sapete delle elezioni sarde

Giuliano Guida Bardi
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Gli occhi riconoscono sempre quello che conoscono. E non sono capaci di vedere realtà sconosciute. Delle elezioni sarde, la mole oceanica di commentatori trascura di vedere, per l’appunto, quello che non può vedere. Le regionali in Sardegna, nazione mancata, sono LE elezioni. E sono due competizioni diverse, una politica, l’altra tribale.

La società sarda è fatta così: è ancipite, complessa, antica, bifronte, arretrata ma futurista. È nuragica, pur se modernissima. E non rinuncia (né potrebbe farlo) al suo ordine sociale. Che è più scozzese che continentale. È una società di clan, di famiglie, di parentati, di tribù. Ecco, la Sardegna ha eminentemente una struttura tribale matrilineare del potere.

Dentro le elezioni che condizionano in Sardegna la vita di chiunque, le regionali, ci sono, in realtà, due competizioni diverse, separate, inconciliabili. Una sfida ha il sapore della vicenda moderna. L’altra il gusto antico di una tradizione secolare. Un’elezione riguarda l’anelito di far parte di una comunità più ampia, quella nazionale o europea. Quell’ altra è, invece, la modalità per scegliere l’areopago, il Senatus. Una delle chiamate alle urne elegge il presidente contemporaneo di una delle venti regioni italiane. L’altra, invece, sceglie il supremo consiglio dei capitribù.

Quella ha eletto Alessandra Todde (o, meglio, bocciato a suon di corno Paolo Truzzu); quell’altra, quella che ha dato una maggioranza (pur se fittizia) alle liste che alla Todde si contrapponevano, ha scelto i capiclan. Non era necessario che fossero concordi. Anzi, in Sardegna più si parcellizza il potere, più tranquilli si sta. Qui l’uomo forte al comando, (né la donna, s’intende), non piace. I Sardi eleggono un Primus inter pares. Non un decisionista, che non ha mai avuto successo sull’isola.

Ecco perché le liste collegate ad Alessandra Todde hanno preso meno voti della neopresidente. Non per ragioni politiche, ma perché dalle parti del cosiddetto centrodestra sono stati più bravi a scegliere donne e uomini rappresentativi dei clan. Famiglie e parentati più vasti, più ampi, più ramificati.

Il presidente della Regione, infatti, governa parzialmente, nella costituzione materiale della Sardegna. Assume la leadership, certo. Rappresenta la nazione dei quattro mori, ovvio. Ne è lo (la) speaker. Porta le istanze al Governo e, se serve, siede in Consiglio dei ministri. Ma non sceglie, perché le decisioni le prende il Consiglio regionale. Senza maggioranza né opposizione precotta. Ma cercando il consenso in Aula.

È vero che i luoghi, fisicamente ed esteticamente, rispecchiano la loro essenza. Ancora più vero per il Parlamento della Sardegna. Un palazzo senza tempo in cui non è mai giorno, non è mai notte, non è mai estate, non è mai inverno. Luce costante, temperatura costante, odore di moquette polverosa costante. Chi abbia trovato lento lo spoglio delle schede in Sardegna, non conosce i ritmi estenuanti di un’assemblea produce due, massimo tre leggi l’anno. Che lavora dal pomeriggio del martedì alla mattina del giovedì, ma non tutte le settimane. Chi si è stupito della inusitata flemma dei sardi al voto e allo spoglio, non conosce il sottovoce da basso continuo dei corridoi, le pareti di carta velina, il crepitio leggero degli accordi tra i consiglieri.

Non ci sono forze politiche, nel Consiglio regionale della Sardegna. Ci sono i capitribù. Poi i loro trattati, le alleanze e le inimicizie. A volte stabili, a volte avventizie. Le unioni di sangue e quelle di scopo. La politica, insomma, con la P maiuscola. Non la retorica fasulla degli ultimi trenta anni della vita nazionale, in cui ogni parte recita un ruolo.

Ignorare questi dati culturali, significa rassegnarsi a non capire. Ad interpretare con vocabolari di altre lingue. A cercare di aprire le serrature della Sardegna con chiavi buone per altre toppe.

Se non si conosce quell’isola penitente nel dettaglio, non si può continuare a parlare di anomalia sarda, di anatra zoppa.

Alessandra Todde, stravagante pentastellata, di cultura moderatissima e mai populista, ha tatuate nell’animus le stigmate di quella sardità ancestrale.  E le sue sono ancora più evidenti per aver manutenuto quei segni sul corpo, in giro per il mondo, conoscendo le altre lingue e le altre tribù. Ora ha scelto di tornare a casa, come Miss Rosela tornava a Tara.

Ecco, è questa la Sardegna di cui tutti parlate: Tara. Una terra antica che ha un’altra lingua, un altro tempo, un altro senso. Moderna, la più moderna d’Europa nell’aver avuto il primo quotidiano on line del vecchio continente o nello scegliere di investire nella modernizzazione informatica e nella ricerca tecnologica.

La più antica nel coltivare la propria diversità, difesa a costo di essere tra le regioni più sottosviluppate del mondo. Un posto protervo, misterioso, generoso e crudele come solo la natura sa essere.

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