La Chiesa dopo Francesco: meno periferica e più universale nell’annuncio del Vangelo

È sbagliato tracciare un bilancio del pontificato appena concluso utilizzando le categorie della politica. Populista, di sinistra, di destra, conservatore progressista: nessuna di queste etichette può incorniciare la profondità del magistero petrino, né per Francesco né per i suoi predecessori né per chi gli succederà. Una storia millenaria sempre in movimento fra Cielo e Terra non si lascia ridurre a qualche misera equazione. Papa Francesco ha portato il Vangelo a tutti, accettando il rischio di portare a ciascuno il proprio Vangelo. Chi gli succede dovrà portare tutti allo stesso Vangelo, opera titanica ma indispensabile: è la stessa ragione sociale per cui Gesù ha fondato la Chiesa con la promessa che le forze del Male non prevarranno su di essa

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 È stato il giorno del grande spettacolo sulla scena della storia. Le esequie solenni di papa Francesco hanno riunito in piazza san Pietro i potenti di 170 Paesi. Da piazza San Pietro a Santa Maria Maggiore, dove la salma è stata tumulata, due ali di folla hanno salutato il corteo funebre lungo i 6 chilometri del percorso e scandito quel tragitto con applausi, evviva, preghiere, pianti e scene di emozione e commozione. Francesco sapeva come raggiungere il cuore delle persone, farle commuovere, accendere un’emozione con parole accorate di pietà e compassione. Quanto tutto questo si sia poi tradotto in un incontro profondo con la fede non è dato sapere. E chiunque ritenga di manifestare certezze farebbe un azzardo.

Qui non si vuole tracciare un bilancio, sarebbe un atto di pura presunzione da parte dell’autore – cattolico per educazione, laico per formazione – non essendo un esperto di cose vaticane. Mi limito soltanto a delineare quelle che a me sembrano essere alcune coordinate essenziali per tentare una comprensione meno superficiale di ciò che è stato il papato di Francesco nel travaglio di questa epoca. Si parla, ricordiamolo sempre, del capo spirituale della Chiesa cattolica, una comunità di circa 1 miliardo e 200 milioni di fedeli che pregano, mangiano e amano nel nome di Gesù Cristo, incarnazione dell’amore di Dio per l’umanità.

Il papa venuto “quasi dall’altra parte del mondo” ha impresso alla Chiesa un’accelerazione improvvisa e una direzione di marcia in cui era racchiusa l’urgenza, il bisogno quasi spasmodico di avvicinarla alle realtà socialmente periferiche, remote. Una Chiesa in grado di interloquire con gli “ultimi” (espressione abusata in queste giornate di bolsa retorica), con i pastori invitati a mischiarsi nel gregge di pecore fino a contaminarsi della loro puzza.

Immagini forti come questa, sono state usate da un papa che ha voluto colpire sullo stomaco sazio delle società cosiddette affluenti per chiamarle a un tempo di penitenza quaresimale, a concedersi all’espiazione dei peccati di cui è costellato il cammino di tanta ricchezza millenaria. È intuitivo associare immagini simili a un cedimento populista nell’annuncio del Vangelo. L’attenzione ossessiva alle periferie sociali ha fatto scivolare in secondo piano, fin quasi a renderla invisibile, ogni attenzione a quelle che il mio amato parroco e grande intellettuale, don Carmine Brienza, definiva le “periferie spirituali”. La Chiesa di Francesco ha finito per assumere su di sé il ruolo di promotore attivo delle rivendicazioni sociali fino a mettere fra parentesi il compito evangelico di curatrice delle anime, di accoglienza di quella società che Benedetto XVI vedeva “ricca e disperata”, disperata nel deserto dei valori spirituali e del relativismo morale. Il cerchio sempre più ampio dell’umana comprensione per le situazioni border line – la comunione ai divorziati e risposati, ai gay, alle persone transgender e alla comunità Lgbtq1+ – voleva essere nelle intenzioni di Francesco la testimonianza di quanto ricca e misericordiosa fosse la parola di Gesù Cristo raccolta nel Vangelo. “Chi sono io per giudicare?”, fu la risposta data ai giornalisti che lo interrogavano sul modo in cui la Chiesa doveva comportarsi verso i gay.

Il Vangelo è davvero quella coperta gigantesca capace di estendersi fino a ricomprendere le situazioni più estreme di disagio, di abbandono e di sofferenza. La parola di Gesù è quella, come lui stesso ci ricorda, del medico venuto al mondo per curare i malati e non per i sani. Don Carmine avrebbe aggiunto: certamente, ma per i malati desiderosi di farsi curare è, una volta curati, non cadere di nuovo nella malattia. All’adultera che salva dalla lapidazione, che cosa dice Gesù? “Ti sono perdonati i tuoi peccati. Va’, e non peccare più”. Nel mondo di Francesco, la misericordia del Signore è grande e gratuita, più in ombra rimane il monito “e non peccare più”.

Per l’Europa, e l’Occidente in genere, terre abbandonate e sorde alla parola di Cristo, desertificate da una secolarizzazione devastante come la siccità che avanza del deserto africano, c’è stato poco spazio nella Chiesa di Francesco. Le “periferie spirituali” abitate da anime dormienti e coscienze anestetizzate dal relativismo non hanno trovato spazio nella sua pastorale. Se ne hanno trovato, è stato per ricevere parole di biasimo e di condanna, senza un briciolo di quella misericordia che lui vedeva riservata solo ai peccatori generati dalla povertà materiale.

Chi dopo di lui salirà sulla tonda di comando e prenderà il timone della barca di Pietro non avrà un compito facile. Provare a rimettere la Chiesa al centro della vita e della storia è un’impresa complicata. Dopo aver portato il Vangelo a tutti, a ciascuno secondo le proprie necessità, si tratta ora di riportare tutti allo stesso e unico Vangelo. Perché tutti – il povero e il ricco, il peccatore e il giusto, il sano e il malato – possano attingere alla parola di Cristo Salvatore e Redentore. “Ama Dio e fa ciò che vuoi”, era la parola di Sant’Agostino con cui la mia guida spirituale, don Giorgio Yiguerimian, mi congedava al termine della confessione. Se ami Dio, ogni cosa che farai nella tua giornata sarà per amore di lui.

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