Di fronte a un’aula gremita e immersa in un silenzio carico di dolore, la Corte d’Assise d’Appello di Bologna ha scritto l’epilogo, forse definitivo, della tragedia di Saman Abbas, la ragazza pachistana di Novellara uccisa a 18 anni per aver sognato una vita diversa. Una sentenza che scuote le coscienze, ribalta il giudizio di primo grado e lascia dietro di sé un’eco di giustizia e solitudine.
Dopo quattro anni dalla notte in cui Saman scomparve nel nulla, oggi la Corte ha condannato all’ergastolo i genitori, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, e i due cugini, Noman Ulhaq e Ikram Ijaz. Il quinto imputato, lo zio Danish Hasnain, già condannato in primo grado, ha visto aumentare la pena a 22 anni, aggravata dalla premeditazione e dai futili motivi.
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In aula, tra giornalisti, fotografi e telecamere, la lettura del dispositivo è avvenuta senza un fiato, come se ogni parola fosse troppo pesante da sopportare. Fuori, su un cartello scritto in urdu, poche parole diventano grido collettivo: “Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”. Una frase che abbraccia il vuoto lasciato da Saman. Una ragazza abbandonata due volte: prima viva, poi morta.
Saman: la voce spezzata di una ribelle
Saman era nata nel dicembre 2002 a Mandi Bahauddin, in Pakistan. Era arrivata in Italia nel 2016. A Novellara, in provincia di Reggio Emilia, sognava di essere libera. Di scegliere. Di amare chi voleva. Di vivere senza il velo, senza un matrimonio combinato, senza le catene delle convenzioni imposte dalla sua famiglia.
Si faceva chiamare Italiangirl sui social. Voleva essere semplicemente una ragazza. E per questo è diventata un simbolo, suo malgrado. Una “ribelle inconsapevole”, come l’ha definita il procuratore Gaetano Paci. Ribelle solo per aver detto: “La mia vita è mia.”
Ma quella libertà le è costata la vita.
Tra il 30 aprile e il primo maggio 2021, Saman è stata uccisa. Probabilmente strangolata nel vialetto di casa. Il suo corpo è stato sepolto in una buca profonda tre metri, in un casolare abbandonato a pochi passi dalla casa in cui viveva. Un silenzio lungo un anno, finché lo zio Danish – catturato in Francia – non ha indicato il luogo della sepoltura.
Un’indagine senza frontiere
La caccia ai responsabili si è estesa per l’Europa: Francia, Spagna, Pakistan. Il primo a essere arrestato fu Ikram Ijaz, poi Danish Hasnain, infine Noman Ulhaq. Ma la svolta più emblematica è arrivata con l’estradizione storica dei genitori dal Pakistan: per la prima volta, Islamabad ha consegnato due cittadini pachistani alla giustizia italiana. Prima il padre, Shabbar; poi, nel maggio 2024, la madre Nazia.
Durante il processo, entrambi hanno negato ogni coinvolgimento, piangendo e puntando il dito l’uno contro l’altro. Hanno persino smentito il figlio minore, fratello di Saman, che per l’accusa è stato un testimone chiave. Un ragazzo fragile, schiacciato dal peso di una verità indicibile, che ha scelto di non partecipare alle ultime udienze.
In aula, Nazia è rimasta seduta, il capo chino, ascoltando in silenzio la traduzione delle accuse. Poche reazioni dagli altri. I cugini, invece, dopo la sentenza sono usciti in fretta dall’aula: sono e restano a piede libero, in attesa di ulteriori sviluppi.
L’Italia si stringe attorno a Saman
Oggi la giustizia ha parlato, ma la storia di Saman non finisce qui. È diventata il volto di tante ragazze che lottano per scegliere, per essere sé stesse, per vivere. Il cartello portato in aula dalle donne di Novellara, dalle avvocate, dalla ex sindaca Elena Carletti, non è solo un messaggio: è una promessa. Quella che il nome di Saman non sarà dimenticato. Che la sua battaglia sarà anche la nostra.
Perché nessuna ragazza debba più morire per aver sognato una vita diversa.
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