Simone Capobianchi, alias Ler Rore: “La mia musica nasce dal cervello e arriva al cuore” | INTERVISTA

Il dj romano spiega come house, disco e ambient si intrecciano con tecnologie neuroscientifiche per creare esperienze sonore irripetibili

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Classe 1990, Simone Capobianchi è nato e cresciuto a Roma. Sin da piccolo ha avuto la fortuna di vivere diverse epoche della scena musicale romana. Negli anni giovanili suonava la chitarra in una band indie, i The Clever, creando poi con il passare del tempo un progetto personale di eventi, Mermaid’s, che lo ha introdotto nella scena elettronica. Da lì il passo a diventare Dj è stato naturale: oggi si muove sotto il nome di Ler Rore.

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Simone Capobianchi, alias Ler Rore

Ciao Simone, come stai? Com’è andata la tua estate? Hai scisso con precisione Simone Capobianchi da Ler Rore o vi siete fusi abbastanza?

Sto bene, grazie! L’estate è stata intensa: ho scelto di rifugiarmi nel deserto per stare lontano dai ritmi serrati, ho cacciato dalla porta il caos che di solito mi accompagna e dato il benvenuto alla riflessione. Più che scindere, credo che Simone e Ler Rore siano sempre più fusi: stanno naturalmente convergendo verso un’armonia comune. Il progetto musicale è diventato un prolungamento naturale di quello che vivo nel quotidiano, non c’è più una vera linea di separazione, ma un continuo scambio di energie.

Hai fatto parte di una band, i The Clever, sei stato ideatore di eventi con Mermaid’s e oggi sei Dj con il nome di Ler Rore. Com’è stare dall’altra parte? In che modo queste esperienze si legano tra loro?

Ogni fase mi ha insegnato qualcosa di diverso. Con i The Clever ho sperimentato il lavoro di squadra e la scrittura collettiva, con Mermaid’s ho imparato cosa significa costruire un’esperienza musicale a 360°, anche fuori dal palco, curando spazi e atmosfere. Con Ler Rore invece ho imparato a stare artisticamente solo e a prendermi la responsabilità di quello che voglio al 100%. È la mia fase consapevolmente adulta.

Ler Rore fonde house, disco, ambient e acid in un viaggio sonoro emotivo e corporeo. Inoltre integra tecnologie neuroscientifiche. Ti va di spiegarci come?

L’idea è unire i due mondi che ho esplorato nella vita: i suoni e le neuroscienze, che spesso si muovono con gli stessi elementi ma in modo diverso. Voglio metterci le mani, sporcarmele e comprimerle in un sapore unico. Nei miei live utilizzo sensori e tecnologie come il neurofeedback per trasformare l’attività cerebrale o corporea in suono o modulazione sonora. In pratica prendo segnali biologici e li traduco in linguaggio sonoro. Questo rende l’esperienza più immersiva e irreplicabile: ogni momento cambia in base alle migliaia di variabili dell’individuo e del contesto.

Porti tanto di ciò che hai studiato all’università nel tuo processo musicale?

Mi diverto a contaminare i linguaggi. Molti concetti che studio in ambito neuroscientifico o psicologico mi stimolano creativamente: neuroplasticità, coerenza cardiaca, frequenze cerebrali… finiscono per diventare metafore sonore o veri e propri strumenti nei live. Non è una trasposizione scientifica diretta, ma un modo per tradurre la ricerca in emozione, oltre che per divulgare e sensibilizzare alla salute mentale.

A Roma riusciresti a vivere solo di musica? Qual è il problema tra remunerazione e performance artistica?

Vivere solo di musica a Roma non è affatto facile, per me è un concetto vicino all’utopia. Gli spazi ci sono, ma manca una cultura che valorizzi l’artista in modo continuativo. C’è energia, ci sono eventi, ma i cachet non sempre sono proporzionati al lavoro e alla ricerca. Il problema sta in una sottovalutazione del ruolo dell’artista: troppo spesso si guarda solo a quanto pubblico porta invece che alla qualità e alla proposta innovativa. È un male che danneggia il settore da dentro, da tempo, e non giova a nessuno.

Ti è mai capitato di avere momenti di sconforto e pensare di mollare?

Sì, come credo capiti a chiunque si espone. Ci sono momenti in cui le persone sembrano meno ricettive, a volte è reale, altre solo percezione. Nasce frustrazione, ma sono momenti preziosi: ti costringono a chiederti perché lo fai davvero. La risposta per me è sempre la stessa: i migliori momenti sono quando senti di non dover dimostrare nulla a nessuno. Anche se mi sento poco visto, ho imparato che l’importante è esprimersi liberamente senza piegarsi al giudizio degli altri. Farlo significherebbe rischiare di odiare ciò che amo o, peggio, snaturarmi per piacere. Quella sì che sarebbe la peggior forma di schiavitù egoica.

Girando per i locali, cosa manca secondo te nel pubblico di oggi?

Credo che il pubblico sia bombardato da stimoli e faccia fatica a concedersi davvero all’esperienza. A volte il contorno diventa protagonista rispetto alla musica. Non è che il contesto non sia importante, lo è sempre stato, ma oggi linguaggio, divertimento e suono sembrano vivere in compartimenti stagni. Un tempo tutto era più omogeneo, compatto, e diventava un ricordo memorabile. Oggi capita più raramente. Non è colpa di nessuno, è il tempo che viviamo. Ma penso manchi un po’ di abbandono, di lasciarsi andare. Vogliamo congelare ogni momento e finiamo per non esserci mai al 100%. Quando succede, però, la connessione che si crea è ancora più forte, forse proprio perché è rara.

In Ler Rore ti sei mai “adeguato” ai gusti sociali o segui sempre l’istinto?

Siamo tutti immersi in un fluido sociale fatto di gusti e mode, quindi nessuno è davvero esente da contaminazioni. Ma se avessi voluto inseguire i trend non farei le cose nel modo in cui le faccio. La complessità che ho scelto — legare strumenti lontani, usare il corpo come strumento, creare uno spazio difforme — nasce proprio dal desiderio di rompere con quello che vedo intorno a me. Detto questo, nessuno fa musica per isolarsi dalla società: io desidero che le persone apprezzino ciò che faccio, è ripagante, ma non ho mai costruito il progetto inseguendo i trend. Una passione deve essere sincera: se ti forzi, il pubblico lo percepisce. Per me suonare è una deliziosa forma di sano egoismo.

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