La presidente von der Leyen ha tracciato la rotta da seguire: l’Ue non vuole uno scontro totale con la Cina, ma è necessaria una strategia per “ridurre i rischi”
La Cina sta cercando di dar vita a un nuovo ordine internazionale con Pechino come attore dominante e l’Unione europea deve essere più risoluta nella difesa della sua sicurezza e dei suoi interessi economici. Alla vigilia della sua visita a Pechino insieme a Macron, la presidente von der Leyen ha tracciato la rotta da seguire: l’Ue non vuole uno scontro totale con la Cina, ma è necessaria una strategia per “ridurre i rischi” derivanti dalle sue mire egemoniche. Non a caso la Commissione europea ha appena presentato un piano sulle materie prime critiche per ridurre la dipendenza da Pechino, diversificando i fornitori e rilanciando le proprie capacità estrattive, e la premier italiana – citando le parole del commissario Breton – ha ricordato che in Europa abbiamo il 30-40% dei minerali necessari al nostro fabbisogno interno, e che è quindi arrivato il momento di estrarli senza più lasciare la produzione agli altri.
La direzione è sicuramente quella giusta, ma ora l’Italia dovrà trarne tutte le conseguenze, uscendo senza ulteriori rinvii dal Memorandum d’intesa firmato dal primo governo Conte sulla nuova via della Seta. Su questo punto, gli Stati Uniti hanno le idee molto chiare: “Nessun Paese europeo, Italia inclusa, dovrebbe far parte della Belt& Road Initiative”. Una posizione netta, con l’amministrazione Biden in piena sintonia (caso più unico che raro) con la linea del predecessore Trump, il cui segretario di Stato Pompeo parlò esplicitamente di “mire strategiche del regime cinese sull’Italia”, con un’esplicita presa di distanze dall’avventurosa politica estera di Conte e Di Maio, che a causa dell’adesione alla Via della Seta rischiò di consegnare alcuni dei nostri asset cruciali nelle mani di Pechino, facendo scattare l’allarme rosso fra gli alleati della Nato.
Il Memorandum di cooperazione tra Roma e Pechino coinvolgeva settori rilevanti come “dialogo politico, commercio e investimenti, cooperazione finanziaria, trasporti e infrastrutture, legami nella società civile, sviluppo della collaborazione nell’economia verde”. In totale si trattava di 29 accordi, 10 fra aziende private italiane e cinesi e 19 istituzionali, dal valore complessivo di sette miliardi di euro, ed erano coinvolti colossi come Ansaldo, Snam ed Eni, telecomunicazioni, oltre a porti come Trieste, Monfalcone e Genova. La Cina tentò perfino di costruire il nostro network per le telecomunicazioni 5G con Huawei, un comparto sensibile per la sicurezza nazionale e per quella degli alleati Nato, e anche in quel caso ci furono troppe oscillazioni e ambiguità prima di ricorrere al golden power.
Quando Conte, tre anni fa, fu l’unico premier del G7 presente a Pechino per il Forum sulla Via della Seta, si disse convinto di aver orientato l’accordo con la Cina verso il trionfo dei diritti umani, dello sviluppo sostenibile, della sicurezza e della protezione della proprietà intellettuale, tutti princìpi però sistematicamente calpestati dal regime: lo schema Belt and Road è infatti una strada a senso unico, lontana da tutti i valori delle democrazie europee e per di più lastricata di trappole. E anche se la logica fosse stata solo quella commerciale, il calcolo si è rivelato sbagliato, visto che le relazioni economiche con la Cina non sono migliorate in modo significativo. Dunque, non c’è una sola ragione per mantenere in vita il Memorandum, che dovrebbe essere rinnovato a fine 2023 e va invece subito archiviato, per carità di patria.
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