Le telefonate fra Putin e Trump fanno notizia due volte: la prima, grazie alla grancassa mediatica da cui si fanno precedere; la seconda volta, fanno notizia perché effettivamente la telefonata c’è stata, non ha cambiato di una virgola la situazione in Ucraina, in cambio si sono date reciproche assicurazioni sul nucleare iraniano. Tutto terribilmente complicato per Zelensky e la resistenza ucraina. Tutto bene per Bibi Netanyhau. Tutto di grande tristezza per l’Unione europea sulla cui testa passano le pretese di Putin assecondate da Trump e nulla può fare contro la macelleria senza fine a Gaza.
Dalla telefonata di giovedì 3 luglio escono due conferme, nessuna positiva per l’Europa: Trump e Putin hanno preso il boccino della guerra in Ucraina e l’Ue si ritrova a essere spettatrice impotente; l’Unione europea, sulla vicenda della guerra come su quella dei dazi, esce divisa come mai era stata negli ultimi decenni. E questo, va detto, è uno degli obiettivi su cui Trump ha puntato dal primo giorno della sua presidenza. Obiettivo, neanche a dirlo, condiviso e apprezzato da Putin.
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Se Kaja Kallas, Alta rappresentante per la politica estera, poteva sostenere fino a qualche tempo fa che l’Europa supportava Kiev fino alla vittoria finale, oggi non può ripetere la stessa promessa. L’Ue supporta Zelensky nelle spese, la Francia di Macron, sempre pronta e petto in fuori, è la più avara fra i Paesi dell’Ue nel fornire armi. La Germania di Merz rimane il primo contribuente finanziario e militare, insieme all’Inghilterra di Starmer.
E l’Italia? È proprio sull’Ucraina che Giorgia Meloni viene a trovarsi per la prima volta disallineata rispetto al suo alleato americano.
La presidente è troppo intelligente per trascurare un elemento decisivo: il sostegno a Kiev, da lei annunciato quando ancora era all’opposizione di Draghi, è il collante più forte con l’Europa e la carta migliore di cui dispone nei rapporti europei. Quanto al resto, sulla partita delle tariffe – e non è poca roba – Meloni ha assecondato fin dal primo giorno la linea dell’appeasement rispetto alla richiesta di Trump. Evitare la guerra commerciale, è ancora oggi il mantra di Roma e Berlino, appena corretto da von der Leyen con la blanda minaccia di replicare ai dazi americani se non si trova un accordo.
È una pagina molto triste nella storia dell’Unione. La Cina di Xi ha intuito dalle prime mosse il punching ball di Trump e ha reagito con lo stesso linguaggio. Ai dazi del 110% ha opposto dazi cinesi dello stesso valore. E solo allora Trump è venuto a più miti consigli. Chi minimizza (è il caso del ministro Tajani) affermando che dazi al 10% sono accettabili, è stato smentito dal presidente di Confindustria. Orsini ha fatto presente che a quella quota, l’Italia perderà circa 180 mila posti di lavoro e il fatturato dell’industria che esporta verso gli Usa ne risentirà per circa 24 miliardi. Non sono cifre trascurabili e il costo sociale in termini di occupazione è pesante.
Lo spirito dimissionario dell’Ue si è ulteriormente manifestato con il cedimento alla ingiunzione trumpiana di abolire la Global minimum tax (GMT). Si tratta del 15% di imposizione fiscale alle grandi Big Tech americane (Microsoft, Meta, Google, Amazon) da pagare nei Paesi dove realizzano il fatturato e non nelle residenze fiscali, scelte dove più bassa è la pressione fiscale. Secondo Ferruccio de Bortoli, l’Unione ha dato prova di uno spirito dimissionario la cui principale conseguenza sarà di rafforzare Trump nei suoi propositi punitivi verso l’Ue. Come dargli torto?
È da credere che nell’Unione si stia facendo strada, lentamente e con deplorevole ritardo, la consapevolezza di assumere un atteggiamento meno arrendevole nei confronti degli Stati Uniti. Intimorito dalla decisione di Trump di interrompere la fornitura di armi, Zelensky si è recato ad Aarhaus, in Danimarca, per incontrare la premier di quel Paese, Mette Frederiksen, la presidente von der Leyen e Antonio Costa, presidente del Consiglio europeo. Da loro ha ricevuto l’assicurazione che l’Ue continuerà a sostenerlo nella resistenza all’aggressione russa. È un primo, ma importante segnale di un’Unione che esce dal mutismo e prova a reagire alle sfide che vengono da Mosca e da Washington.
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