La domanda che abbiamo il dovere di porci è: può una parte della magistratura ergersi a giudice supremo della storia di una nazione? Esiste ancora la ragion di Stato?
Dunque, la Cassazione ha assolto in maniera definitiva – per non aver commesso il fatto – gli imputati del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, annullando così anche la sentenza di appello che pure aveva dichiarato non colpevoli gli accusati, ma perché il fatto commesso “non costituiva reato”. Ora invece, come chiedevano gli imputati, è caduto non solo l’impianto accusatorio ma è stato anche ampliato nel senso più pieno del termine il concetto di assoluzione. Va ricordato che in primo grado, nel 2018, la corte d’assise di Palermo aveva condannato tutti gli imputati, tra cui i vertici del Ros e Marcello Dell’Utri. Ebbene: ora la Cassazione ha dimostrato che quella sentenza era stata l’ennesimo atto dello sconfinamento di una parte della magistratura, divenuta di fatto giudice della storia e dell’etica collettiva, ambiti che dovrebbero restare estranei all’azione penale, alle conseguenti sentenze e agli effetti politici che inevitabilmente ne derivano. Una deriva iniziata con Mani pulite, che fu un’operazione troppo parziale e troppo strabica per risolvere alla radice un problema – quello del finanziamento ai partiti – che era e resta eminentemente politico. Il “trattamento speciale” che alcune Procure hanno poi riservato a Berlusconi è l’emblema stesso di una giustizia politicizzata che non persegue i reati, ma costruisce teoremi e li porta in fondo costi quel che costi. E’ questo il macigno più pesante da rimuovere per salvaguardare l’equilibrio tra i poteri dello Stato, ripetutamente alterato dalle incursioni giudiziarie che hanno più volte condizionato e alterato gli esiti della stessa volontà popolare. Si tratta di una fondamentale questione democratica.
Furono molte le incongruenze della sentenza della Corte d’Assise di Palermo: il reato per cui furono condannati a pene gravissime funzionari dello Stato, che avrebbero agito su input di altissime autorità statuali rimaste però fuori dal processo si chiama “Attentato e minaccia a corpo politico dello Stato”, contestato a quanto pare solo un’altra volta ma nessuno ricorda neppure a chi. L’indeterminatezza di certi reati – e di questo la colpa è di un legislatore sempre più prono alle sirene del giustizialismo- ha del resto fatto sì che l’obbligatorietà dell’azione penale si sia progressivamente trasformata nell’usbergo sotto cui in realtà si nasconde il massimo della discrezionalità, rendendo quasi del tutto inesistenti le garanzie per l’imputato di turno. Nel caso specifico c’erano tutti gli elementi per sostenere da subito che si trattasse di un processo squisitamente politico. Basti pensare che il principale accusatore, subito trasformato in eroe dalle vestali del giustizialismo, fosse candidato con tutti gli onori a ministro della Giustizia del Movimento Cinque stelle. Quello stesso pubblico ministero che non esitò, commentando la sentenza, a scagliarsi impunemente contro Berlusconi, che nel processo era parte lesa e non imputato, trasformando così la giustizia in uno strumento obliquo da utilizzare a proprio piacimento. Ma la magistratura dovrebbe valutare un fatto, la notitia criminis, esclusivamente secondo le norme del nostro ordinamento e limitarsi a quello, mai svolgere quella funzione di supplenza diventata purtroppo prassi consolidata nell’azione di alcune Procure dagli anni Novanta in poi. Un fatto può essere sottoposto a diverse valutazioni secondo il diritto penale, sotto il profilo storico, sotto il profilo della morale e sotto quello politico, ma quando si tende a unificare tutti questi profili sotto una sorta di palingenesi giudiziaria, allora suona un campanello d’allarme che dovrebbe scuotere dal profondo le coscienze di chi ha a cuore le sorti della democrazia liberale.
La domanda che abbiamo dunque il dovere di porci oggi, dopo la sentenza della Cassazione è: può una parte della magistratura ergersi a giudice supremo della storia di una nazione e della responsabilità della sua classe politica, specie quando essa si trova ad agire in uno stato di eccezione? Esiste ancora la ragion di Stato?
Fa riflettere, e molto, la lettera scritta stamani al Foglio dal giudice Guido Salvini: “Il processo Stato-mafia si è disintegrato, anche se con 20 anni di ritardo e con incalcolabili danni pubblici e privati… Cercare di far entrare a forza queste vicende nel codice penale era non solo un’operazione giuridicamente spericolata ma, ora ci dice la Cassazione, anche costruita in una prospettiva completamente strabica… Chiunque sapesse un po’ di diritto sapeva che il processo galleggiava sul nulla, sostenuto soprattutto dai mass media, e che prima o poi sarebbe affondato. Un vero Titanic per alcuni pubblici ministeri”.