I professionisti della lottizzazione stanno a sinistra, iniziando da Prodi che in sette anni fece 170 nomine in società controllate, piazzando 93 manager tutti con tessera democristiana
Lo spoil system, a quanto si legge in queste ore, sarebbe un diritto ad uso e consumo solo della sinistra, perché se lo applica un governo di centrodestra diventa una lesione della democrazia, e allora avanti nella ricerca dei termini più spregiativi: da “vergogna” a “vicenda squallida” a “becera prova di forza” fino – addirittura! – a “rastrellamento” – copyright la Repubblica – vista “la brutale solerzia con cui l’esecutivo ha intensificato le destituzioni dei dirigenti sgraditi”. Per gettare fango sulla maggioranza, insomma, qualche brillante penna non ha esitato a paragonare normali avvicendamenti ai vertici degli enti di Stato con le purghe del regime fascista. Sono commenti scritti in evidente ansia da prestazione, di chi è cresciuto nell’inveterata convinzione che la destra, politicamente figlia di un dio minore, non è mai legittimata a governare. Bene: a queste vestali dell’ipocrisia va rinfrescata la memoria, per ricordare che i veri professionisti della lottizzazione stanno proprio dalla loro parte, iniziando da uno dei padri nobili della sinistra, Romano Prodi, che da presidente dell’Iri – nella Prima Repubblica – in sette anni fece 170 nomine in società controllate, piazzando 93 manager tutti con tessera democristiana. Non solo: quando era presidente del consiglio, tra il 2006 e il 2008, la macchina dello spoil system funzionò come la ghigliottina ai tempi di Robespierre. Ogni nomina, infatti, fu accuratamente selezionata con un metodo talmente scientifico da superare perfino l’oliato manuale Cencelli, ripescando manager dei bei tempi andati e vecchi amici di scuola.
Qualche esempio? Alle attività portuali, di competenza del Ministero dei Trasporti, la presidenza andò al Pdci; all’Anas, di competenza del Ministero delle Infrastrutture, furono piazzati due manager ex Iri e due iscritti all’Italia dei valori; alla presidenza Consob, di competenza del premier, un economista bolognese vicino al Professore; a Cinecittà un personaggio vicino a Rutelli; all’Agenzia delle entrate, un amico di Visco. Per non parlare della Rai. All’insegna del “ricompensiamo tutti”, per tenere in piedi il baraccone pericolante dell’Unione, si fece dunque razzia di poltrone, poltroncine e strapuntini, in perfetta continuità con la carica dei 102 sottosegretari imbarcati nel governo, record assoluto nella storia della Repubblica. Le scelte caddero prevalentemente su consulenti, tecnici, docenti universitari e manager formati alla “scuola Iri”, da Alitalia a Sviluppo Italia, dalla Sogin alla Consob fino alle Autorità portuali, divise tra Ds, Pdci, Margherita e Italia dei Valori. Fu un’abbuffata talmente spudorata che Rifondazione comunista evocò l’esistenza di una nuova questione morale, annunciando che non avrebbe mai votato quelle nomine.
Quella volta, per lo meno, la sinistra aveva vinto le elezioni, ma l’occupazione dei posti di potere e sottopotere è proseguita ininterrottamente fino all’anno passato. Basti pensare al Conte bis, il governo rossogiallo, che confezionò un corposo pacchetto di nomine ai vertici delle grandi aziende di Stato gettando alle ortiche il vecchio anatema grillino contro le lottizzazioni e le vituperate manovre di Palazzo. Il Pd, forte della sua consolidata esperienza in materia, fece il pieno di amministratori delegati lasciando ai Cinque Stelle la maggior parte delle presidenze: gli acerrimi nemici di qualche mese prima non esitarono a sedersi al banchetto imbandito dall’avvocato del popolo. Ebbene, dopo un banchetto durato più di tre lustri, mentre il nuovo governo sta legittimamente applicando lo spoil system introdotto in Italia dalla legge Bassanini (ai tempi dell’Ulivo…), i vertici del Nazareno adesso gridano alla lesa maestà, ritenendo evidentemente lo Stato una loro dependance. Una predica inconcepibile da un pulpito più che improbabile.
Come quella del presidente dell’Inps Tridico, che ha commentato il commissariamento dell’istituto con parole di fuoco: “E’ una decisione immotivata, indegna, incomprensibile sul piano istituzionale e gestionale. Pura aggressività politica che reca danno anche alla credibilità delle istituzioni…”. Peccato che lui stesso fu messo da Di Maio al vertice dell’Inps proprio attraverso un commissariamento. E ora, come padre del reddito di cittadinanza che il nuovo governo ha archiviato, pretenderebbe di restare al suo posto come se nulla fosse accaduto. Forse l’opposizione – Pd in testa – dovrebbe prendere atto di aver perso le elezioni, dopo aver occupato per un decennio lo Stato senza averle mai vinte.