Ecco perché la convivenza tra i due Dem si annuncia più come una lunga tregua armata che come una proficua sinergia per tenere in equilibrio il partito
Dopo una videocall durata quasi due ore è stato raggiunto l’accordo per affidare la presidenza del Pd allo sconfitto Bonaccini, una scelta che la neo-segretaria proporrà domani all’Assemblea nazionale e che dovrebbe portare a una guida unitaria del partito dopo lo choc delle primarie. In teoria, col governatore emiliano nel ruolo di presidente, non si potrà più parlare di “minoranza” o di “maggioranza”, con l’archiviazione del metodo tradizionale di divisione degli incarichi per quote di appartenenza. Ma stiamo parlando, appunto, di teoria, perché il clima nel Pd non è certo da Mulino Bianco: le ferite sono ancora tutte aperte, tanto che la composizione della segreteria resta in alto mare e domani non verrà ratificata: la componente riformista di Guerini e Lotti, schierata al congresso con Bonaccini, vorrebbe infatti restarne fuori per tenersi le mani libere nei confronti di una linea politica che sta portando il Pd sul fronte del radicalismo movimentista. Il rischio, in effetti, è che il compromesso raggiunto tra i due rivali finisca per avere l’effetto del cerotto su una piaga, nascondendo sotto il tappeto le divergenze programmatiche già emerse nella fase congressuale e difficili da conciliare. Il Pd è sempre stato un ircocervo, e anche il decennio di permanenza al governo senza mai vincere le elezioni non ha risparmiato i veleni delle guerre correntizie macinando un segretario dietro l’altro. Figuriamoci cosa potrà accadere ora che il partito, dopo la storica batosta elettorale di settembre, sta per affrontare una lunga traversata nel deserto dell’opposizione senza il cemento del potere. L’unità in politica è certamente un valore, ma se si basa su un accordo fittizio rischia di diventare un frutto avvelenato, e pare essere proprio di questa natura il senso della collegialità Schlein-Bonaccini, una perpetuazione di quell’amalgama non riuscito di cui parlò molti anni fa, con una stilettata beffarda ma sicuramente azzeccata, D’Alema.
Come potranno convivere pragmatismo riformista e radicalismo è in effetti un mistero, nonostante la benedizione alla giovane leader data dai padri fondatori del partito, che hanno espresso “fiducia nel ritorno a quello spirito originario che 15 anni fa seppe unire culture e tradizioni politiche diverse, la sinistra e il cattolicesimo democratico”. Veltroni, in particolare, si è molto sbilanciato: “Elly può far tornare il Pd a essere un partito di sinistra in grado di conquistare la maggioranza degli elettori. Una forza che non sia minoritaria, ma miri a essere più larga possibile, competitiva, con prospettive di governo non come fine ma come mezzo”. Una sortita sconcertante, visto che il “nuovo” Pd di Elly, come si è visto dalle prime mosse, sta imboccando la strada opposta a quella tracciata da Veltroni nel discorso del Lingotto, arroccandosi in un fortilizio identitario che prefigura un campo largo, ma tutto spostato sull’asse massimalista e in collaborazione-competizione col populismo grillino.
La vocazione maggioritaria dei Dem
La “vocazione maggioritaria” originaria identificava il Pd come “partito del Paese, grande forza nazionale, in un bipolarismo nuovo, fondato su chiare alleanze per il governo e non più su coalizioni eterogenee”, “un partito con un programma “incisivamente riformatore” e con una ricetta economica tutta improntata allo sviluppo e attenta alle istanze delle medie e piccole imprese. Ora invece nel “nuovo” Pd stanno prevalendo sia le pulsioni identitarie che il richiamo della foresta gauchista, e non a caso il manifesto del 2007 è stato definito addirittura “ordoliberista”.
Tregua armata
Veltroni voleva unire le culture e le forze riformiste, orizzonte lontano anni luce dal partito incarnato da Elly Schlein, che rappresenta una sinistra minoritaria dei diritti e del nuovo anticapitalismo della sinistra mondiale che, da Corbyn a Sanders, ha rinnegato la stagione di Blair e di Clinton per una stagione di diritti senza doveri. Il partito delle origini, di cui Bonaccini è l’ultimo erede legittimo a differenza dell’Occupy Pd della Schlein, si era anche schierato per impostare su una chiave nuova il confronto fra destra e sinistra, aprire una fase di riforme condivise col centrodestra facendola finita con una politica avvolta dall’odio. Propositi rimasti troppo spesso solo nel libro delle buone intenzioni, ma comunque opposti a quelli della sinistra scesa in piazza a Firenze per rilanciare l’allarme della “destra fascista”, e che ha già bollato la riforma istituzionale della maggioranza col marchio della svolta autoritaria. Con questi presupposti, la convivenza tra Schlein e Bonaccini si annuncia più come una lunga tregua armata che come una proficua sinergia per tenere in equilibrio il partito.