Finiti brindisi e like per la laurea di Carlotta Rossignoli, il nostro viaggio tra i ragazzi della Sapienza restituisce la reale situazione degli studenti italiani, stanchi della narrazione tossica di successo e performance
La narrazione degli enfant prodige è stucchevole e fuorviante più o meno dall’Ottocento. La storia di Carlotta Rossignoli, la studentessa di medicina e modella che non dorme mai, infoltisce di un pochetto il gruppo sparuto di storie di studenti “da record” che trovano spazio nello scroll distratto quotidiano, ma anche nelle pagine di certi giornali nei quali si parla di giovani solo in maniera poralizzante: i fannulloni e gli iperproduttivi, i ribelli e i bravi ragazzi, gli avventurosi e i mammoni.
Ma queste storie non rappresentano la realtà delle studentesse e degli studenti italiani: una fauna eterogenea di storie e vite, spesso appese al filo delle aspettative troppo alte di un sistema che li vuole perfetti e imbattibili.
Studenti incompresi, invisibili, abbandonati
Muovendosi fra le aule, i corridoi e i prati dell’università La Sapienza a Roma, recentemente teatro di violenti scontri con la polizia, è possibile scoprire un sostrato insofferente di studenti, in conflitto con una società che si basa sempre di più sulla performance e non sul valore duraturo, sulle competenze e non sulle conoscenze.
C’è una realtà sommersa e poco considerata, comprensibile solo dall’ascolto della voce degli studenti stessi, che raccontano di esami-mattone, insegnanti poco reperibili, pressioni frequenti a ottenere il massimo, ansia del fallimento, genitori petulanti, nonché del prezzo salatissimo di vivere in una città con un mercato immobiliare sempre più scollato dalle loro reali possibilità di spesa.
Meccanizzazione: la storia di Francesca
“Il problema gigante che ho sentito in questi anni è la meccanizzazione: non c’è attenzione alla persona, sia essa studente o insegnante. O impari a nuotare o affoghi. E non si affoga solo lasciando l’università, ma anche con gli attacchi di ansia prima degli esami, la somatizzazione, il senso di inferiorità, l’accettazione di dover star zitto di fronte alle ingiustizie o follie del sistema, che ti educa brillantemente al futuro”. Lo afferma Francesca, studentessa alla magistrale di Linguistica, che delinea con lucidità quanto le falle siano nel sistema complessivo e non in pochi ingranaggi. “Io mi sono sempre sentita poco seguita, poco curata, poco ascoltata – prosegue – Non tutti riescono a crescere da soli o a godersi l’indipendenza. Lo scambio, il confronto, anche il conflitto talvolta, sono fondamentali. Spesso noi studenti ci accaniamo contro i professori incompetenti o disorganizzati, ma di recente mi è capitato di ascoltare un punto di vista di una docente ed è stato lampante quanto il problema sia nel sistema, non nelle persone. E si creano antagonismi e battaglie inutili tra chi sta da un lato o dall’altro della cattedra”.
Francesca giudica inoltre, con malinconia e rabbia, la mancanza di cura dello studente, provata in prima persona. In una società in cui le università sono viste e gestite come “esamifici” e non come luoghi di confronto e conflitto attivo, transgenerazionale e transdisciplinare, perché si continua a promuovere un’idea cristallizzata di successo, forgiata sulla figura di studente eroe?
“Io soffro molto anche che non ci sia formazione alla competenza ma solo alla conoscenza. Sono pochi i corsi – perché pochi i mezzi, ristretti i tempi, minima la formazione dei docenti in proposito – in cui si fa qualcosa. Dopo 5 anni io non so come si inizi a fare un’edizione critica, come un’indagine di linguistica sincronica. L’unica vera occasione sono le tesi, ma di nuovo, pochi professori e ancora meno quelli che davvero ti seguono, ti consigliano, ti guidano, o anche solo che si ricordano il tuo nome e si leggono quello che scrivi”.
Simona: “Gli studenti sono uno scarico psicologico della società”
Simona studia Italianistica. Fuori dalla casa in cui non le si chiedeva più come stesse, si sente libera e leggera di studiare secondo i suoi tempi. La burocrazia arzigogolata dell’università non la capisce per niente, ma a centellinare il poco che le dà un lavoro part-time è espertissima.
“Gli studenti sono lo scarico psicologico della società – afferma lapidaria – Da loro ci si aspetta prima di tutto che studino la cosa giusta, perché altrimenti stanno perdendo il loro tempo; poi che restino in corso perché, e cito i boomer, ormai tutti si laureano e quindi bisogna eccellere; infine che accettino di lavorare per pochi spicci. Se questi presupposti non dovessero bastare per una ricetta di burnout possiamo aggiungere il senso di colpa perenne nel non riuscire a incontrare tali standard per vari imprevisti e nel sentire i soldi spesi dai genitori pesare sulle spalle come lingotti d’oro da riscattare. Cosa si impara all’università quando le nozioni spariscono? Che siamo numeri che devono performare, altrimenti siamo inutili”
Matteo studia Cavalcanti e di sera consegna la pizza
Matteo sa spiegare l’amore cantato da Gazzelle recuperando i versi di Cavalcanti e consegna le pizze la sera per non gravare sulla sua famiglia. Su di lui, come su tanti, grava lo stigma del fuoricorso. Quant’è difficile essere giovane e ancora appassionato della vita in una società che ha fatto della velocità la propria dea? Dalle parole dello studente di Lettere affiora una critica netta a società, stampa e università, che nella loro narrazione non distinguono il merito dal privilegio.
“Mi viene in mente una metafora: l’università è l’anfiteatro Flavio. Con professori, rettori e segreterie che si girano i pollici. Noi studenti di classe poco agiata e lavoratori ci stronchiamo le gambe a vicenda per una borsa di studio, come se fosse il trofeo del nostro merito. Ma quale merito se in cambio abbiamo solo ansia, paranoie e nottate di studio. La società e la stampa e la stessa università ti fanno sentire continuamente sbagliato, o per i tuoi tempi o per le tue decisioni. Vengono messi in vetrina personaggi agiati con una storia personale banale che ha condotto loro a laurearsi precocemente. Ma allora io che mentre studio devo lavorare, supportare la mia famiglia, non valgo abbastanza per un titolo di giornale?”.
Dove finisce il merito e inizia il privilegio?
Proviamo l’urgenza di glorificare chi arriva prima di tutti, chi completa prima le cose, chi brucia le tappe, senza considerare che bruciare è sinonimo di perdita di senso. Il mito della velocità che ci portiamo dietro dal primo Novecento immortalato in sculture i cui soggetti sfuggono al marmo si è trasformato in fede e poi in fanatismo. La storia occidentale del progresso incanalata sul modello del farcela nella vita si dipana attraverso le microstorie di pochi esemplari che vengono eretti a simboli sacri.
I personaggi di questa grande storia sono caratterizzati dagli stessi tratti: rapidità di raggiungimento degli obbiettivi, passato di sacrificio, devozione per quello che si fa. Secondo questa storia, i tempi sono cadenzati secondo uno stesso ritmo: quello forsennato e ossessivo del successo a tutti i costi, prima di tutti, per vincere quella che sembra la gara più importante della propria vita, una gara nella quale il raggiungimento della destinazione è più importante del percorso.
Ma dietro l’ammaliante storiella dello studente record c’è spesso una situazione privilegiata che gli ha permesso di avere la testa svuotata dalle incombenze quotidiane e future che invece gravano sulla grande maggioranza dei giovani italiani: completare gli studi non troppo tardi, mentre si cerca di acquisire competenze che l’università non provvede loro, mentre si fa lo slalom fra caroaffitti, carospesa e mercato lavorativo dissestato.
All’idea di successo così dipinta va sostituito un concetto più umano e verosimile: la fioritura personale. Trovare il proprio ritmo, seguirlo, percorrere la propria, personalissima strada. Rifiutare narrazioni tossiche come quella montata su Carlotta Rossignoli è il primo passo da compiere, cui segue la necessità di costruire altre e plurali narrazioni, più attinenti alla realtà.