La sinistra sarà anche inconcludente (e lo riconoscono molti dei suoi protagonisti) però le cose al suo interno si muovono con la velocità di una giostra impazzita. Pensate che cosa è accaduto nel breve volgere di giorni. Da Milano, dove si sono riuniti dopo mesi di mutismo – tranne isolate prese di posizione dell’ardimentosa Pina Picierno – i riformisti del Pd hanno fatto sentire la loro voce e messo finalmente nero su bianco le loro riserve sulla linea del partito. Lo hanno fatto con toni veementi, come nel caso di Giorgio Gori che ha punzecchiato Schlein ricordando che il Pd è nato riformista e non può esternalizzare ad altri i suoi valori (leggi Renzi e il sempre più remoto Calenda).
Meno ultimativo, ma non meno pungente, Piero Fassino: l’opposizione a Meloni c’è, ma nell’opinione pubblica l’alternativa non è ancora percepita come credibile. Va chiarito che dal convegno milanese della nuova corrente – nata con la scomunica di Stefano Bonaccini ormai allineato alla segretaria – non è mai stata pronunciata e neppure allusivamente evocata la parola scissione. E non poteva essere altrimenti, alla vigilia delle ultime tre tornate di voto regionale. Anche dopo, però, è bene mettere da parte quell’ipotesi: la sinistra è nata ed è morta dopo ogni scissione.
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È certo che il messaggio riformista è arrivato a Schlein, sarà da vedere se sarà recepito e in che misura. Perché Lorenzo Guerini, con Graziano Delrio riconosciuto fra i leader della corrente, ha diplomatizzato il dissenso dalla segretaria presentando l’incontro come uno spunto per riaprire un confronto, una discussione, insomma nessuno pensa di lanciare ultimatum o aut-aut a Schlein, però aver convocato l’ultima direzione a febbraio è troppo per un partito che ha un bisogno terribile di produrre idee, aggiornare la strategia per andare oltre quella parola d’ordine “testardamente unitaria” che non ha fin qui prodotto risultati ragguardevoli.
Nelle regioni che hanno votato il Pd ha raccolto un magro bottino, con l’eccezione – non proprio scontata – della Toscana dove però a trascinare la coalizione ci ha pensato Eugenio Giani in compagnia di Matteo Renzi. Sono troppe le cose da rivedere, sul piano organizzativo ma soprattutto dal lato dell’offerta politica. Schlein si rivolge a un’opinione indistinta e lo fa con proposte tanto generiche quanto fumose.
Gli ultimi mesi, poi, aver mobilitato o partecipato con la Cgil a mobilitare l’opinione pubblica sui massacri a Gaza ha portato il Pd su una rotta troppo lontana dal sentimento più diffuso fra le persone. Una politica basata sull’emotività del momento è quanto di più lontano dalla necessità di una strategia che valorizzi il programma e le proposte del partito.
Non bastasse la rifiorita corrente riformista, ecco un altro assediante ancora più insidioso per la sua abilità di trasformista. Si tratta di Giuseppe Conte, il “padrone” del M5S. “L’Arsenio Lupin delle idee altrui – secondo il brillante ritratto di Luigi Bisignani su Il Tempo di domenica 26 ottobre – trafuga con scaltrezza, rielabora con astuzia e restituisce con la convinzione di aver inventato tutto lui”. Da principe del foro a principe del trasformismo. Ecco Conte, allora, presentarsi all’incontro promosso da Alessandro Onorato con sindaci e amministratori di sinistra, ma senza partito, per dar vita a una lista da affiancare al Pd alle prossime politiche.
Conte si è presentato con aria sorniona all’Hotel Parco dei Principi, a Roma, e con la più bell’aria di questo mondo si è accomodato in platea ad ascoltare Beppe Sala, Silvia Salis, Gaetano Manfredi e lo stesso Onorato. Conte-Zelig, negli abiti del moderato, è solo la più recente versione dell’ex premier, certo non l’ultima. Dopo aver disarmato il dissenso di Chiara Appendino, durato lo spazio d’un mattino, eccolo pronto ad annuire al civismo centrista, a escogitare capriole e giochi di prestigio per dire che, sì, anche lui aveva pensato una collocazione simile per il “suo” M5S.
Del partito nato sull’onda del “vaffa” di Beppe Grillo resta poco o niente. Per la verità restano pochi anche gli elettori, molti rifugiati nell’astensione altri dispersi tra diversi partiti, non sempre di sinistra. A Conte poco importa. Il suo obiettivo non è rinverdire i successi elettorali, finiti per sempre, ma di intralciare il cammino di Schlein e di chiunque altro/a verso palazzo Chigi. Vedovo inconsolabile del potere accarezzato per due anni, Conte ha la furbizia del paysan, offre sorrisi in ogni direzione, da ogni direzione succhia idee e proposte e, in sinergia involontaria con i riformisti, rafforza l’assedio a Elly Schlein costretta a questo punto a guardarsi le spalle dentro e fuori del Pd.
Una cosa non può fare: accusare Conte o Guerini di slealtà. È stata lei stessa a preparare il terreno per il doppio assedio in cui viene a trovarsi. La fuga dalla realtà e la rincorsa tanto dell’estremismo verbale quanto dell’inconcludenza pratica hanno finito per collocare il Pd in una posizione innaturale per la sua giovane storia. Poco rimane della stagione veltroniana in un partito consegnato a un movimentismo velleitario come non si era visto neppure negli anni Settanta del secolo scorso.
Chiuso il ciclo del voto regionale, Schlein e Conte sì sono proposti di affrontare i nodi programmatici. E che nodi, viene da dire. Ucraina, integrazione europea e, soprattutto, il riarmo. Solo allora sarà possibile verificare se la rincorsa al centro di Conte è davvero una svolta autentica, e capire se la “testardaggine unitaria” di Schlein è tale da indurre il Pd a consegnarsi per sempre all’estremismo ideologico e rinunciare a qualsiasi ambizione di governo.
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