Oggi si apre insomma una partita al buio, anche perché sull’unica apertura finora registrata, quella sul premierato, i distinguo si sprecano: in teoria ci sarebbe un largo fronte favorevole a rafforzare i poteri del premier, trasformandolo in un cancelliere sovraordinato rispetto ai ministri e stabilizzato dalla sfiducia costruttiva
Oggi dovrebbe partire – il condizionale è d’obbligo – il percorso delle riforme istituzionali, ma all’orizzonte ci sono più nubi che schiarite. Il vicepremier Tajani, pur auspicando il dialogo con le opposizioni, ha avvertito che di fronte a un no pregiudiziale la maggioranza andrà comunque avanti, e poi decideranno i cittadini col referendum confermativo. Posizione condivisa anche dai ministri Calderoli (“La sinistra si renda conto di aver perso le elezioni”) e Ciriani: “Speriamo in un no preventivo da parte della sinistra e non ci impicchiamo a una soluzione cercando di imporla, ma con un no preventivo dovremmo procedere anche da soli, anche se non è quello che vogliamo”. La sinistra, tanto per cambiare, si presenta divisa, con i Cinque Stelle pronti all’Aventino, il Terzo Polo in posizione dialogante (“Le nostre idee sono semplici e chiare – ha scritto Renzi -: sindaco d’Italia e superamento del bicameralismo perfetto. Abbiamo le carte in regola per dirlo forte e chiaro”) e il Pd ancora incerto sul “che fare”, anche se la maggioranza schleiniana sembra già orientata al pollice verso. Dal Nazareno, dopo la riunione della segreteria di ieri mattina, è filtrata una cautissima linea di apertura all’ascolto, “perché siamo un partito responsabile”, ma anche di perplessità, soprattutto perché la riforma della Costituzione (celebrata ieri da tutto l’arco parlamentare nel 75esimo anniversario della prima seduta del Senato della Repubblica) non è considerata la priorità per il Paese. Rimane comunque, al di là della disponibilità all’ascolto, il no alle ipotesi tanto di premierato quando di presidenzialismo: per la maggioranza sono le due ipotesi che garantirebbero governi più stabili, per il Pd una sorta di foglia di fico dietro cui “nascondere i reali problemi del paese”.
Memore dei fallimenti del passato, Giorgia Meloni ha scelto di non presentarsi con un progetto precostituito, anche se è nota la propensione del suo partito per il semipresidenzialismo francese, con la consapevolezza che il punto di caduta per un accordo potrebbe essere il premierato nelle due varianti dell’elezione diretta del capo del governo o del cancellierato tedesco. Sul presidenzialismo la sinistra ha cambiato più volte verso, a seconda delle convenienze politiche del momento, e oggi che al governo c’è il centrodestra i pregiudizi sul rischio di una svolta autoritaria sono cresciuti in modo esponenziale.
Oggi si apre insomma una partita al buio, anche perché sull’unica apertura finora registrata, quella sul premierato, i distinguo si sprecano: in teoria ci sarebbe un largo fronte favorevole a rafforzare i poteri del premier, trasformandolo in un cancelliere sovraordinato rispetto ai ministri e stabilizzato dalla sfiducia costruttiva. Ma la sinistra vuol assolutamente salvaguardare “la preziosa funzione neutra del capo dello Stato”, che verrebbe svilita “nell’impossibile convivenza tra un premier eletto dal popolo e una controfigura di presidente di investitura parlamentare”.
Per cui al Pd non andrebbe bene né il sindaco d’Italia proposto da Renzi, né il premierato forte (una formula che garantirebbe ai cittadini di poter scegliere non solo un partito, ma anche un programma, una coalizione, una proposta di governo e un premier): resterebbe solo un cancellierato alla tedesca nel solco della democrazia parlamentare. Eppure nella Bicamerale D’Alema la proposta di premierato forte fu presentata da un diessino (Salvi) e prevedeva l’elezione diretta del primo ministro, il suo rapporto di fiducia con la sola Camera dei deputati e lo scioglimento della Camera in caso di approvazione di una mozione di sfiducia al premier. Il quale avrebbe peraltro avuto il potere di nomina e revoca dei ministri e di proporre al presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere. Ma in fatto di riforme, la sinistra non è mai stata un modello di coerenza.
C’è poi la questione di come impostare il percorso delle riforme, con l’ipotesi di una Bicamerale ad hoc, magari sulla falsariga della commissione De Mita-Jotti del 1992, che fu istituita con due atti monocamerali di contenuto analogo. Ma realisticamente al momento non sembra esserci in Parlamento il clima giusto per arrivare a una riforma bipartisan: il Pd resta infatti ancorato al retaggio secondo cui solo il partito erede delle forze che diedero vita alla Costituzione sarebbe legittimato a modificarla.