Riforma del Patto di stabilità: il bicchiere è mezzo vuoto

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Bicchiere mezzo vuoto a causa dell’allungamento dei tempi dell’aggiustamento fiscale. Positivo lo sforzo, ma occorre troppo rigore. A rischio crescita paesi ad alto debito, come l’Italia

La riforma del Patto di stabilità, presentato dalla Commissione europea, è un compromesso tra le richieste dei falchi – Germania in testa – che volevano regole più stringenti per il rientro di deficit e debito, e l’asse Italia-Francia per non frenare la crescita dei Paesi più indebitati.

L’ultima formulazione rappresenta un passo avanti per l’Italia: sono previste infatti traiettorie di riduzione del debito specifiche per ogni Paese, più graduali degli sforzi richiesti oggi secondo la regola (mai applicata) che prevede una riduzione del rapporto debito-Pil pari a un ventesimo annuo della quota eccedente il 60%. Il percorso di rientro sarà di quattro anni, estendibile fino a sette nel caso in cui lo Stato membro presenti un piano di riforme e investimenti in linea con le priorità Ue e orientati alla crescita.

Bicchiere mezzo vuoto: allungamento tempi di aggiustamento fiscale

Il bicchiere mezzo vuoto è invece rappresentato dal fatto che la riforma non contabilizza in modo diverso le spese per investimenti, ma punta all’allungamento dei tempi dell’aggiustamento fiscale. Il commissario Gentiloni l’ha spiegata così: “Tu devi ridurre il tuo debito già in modo molto graduale rispetto alle regole attuali, ma lo puoi ridurre in modo ancora più graduale se ti concentri su quegli investimenti e guadagni così spazio fiscale, avendo tre anni in più per la riduzione del debito”.

La tiepida reazione di Giorgetti

La reazione del ministro Giorgetti è stata infatti molto tiepida: il nuovo Patto è un passo avanti, ma l’Italia aveva chiesto l’esclusione delle spese d’investimento, ivi incluse quelle tipiche del Pnrr digitale e per il green deal, dal calcolo sul rispetto dei parametri. Dunque: è positivo lo sforzo di superare la rigidità delle norme attuali, ma il pendolo sembra ancora una volta oscillare in direzione più del rigore che della crescita, e la mancata previsione di una “golden rule” per gli investimenti pubblici rischia di mettere a rischio la crescita dei Paesi ad alto debito come il nostro. Ora partirà il negoziato per migliorare la riforma, ma si profila un difficile braccio di ferro con i Paesi frugali, visto che il governo tedesco e quello olandese hanno già annunciato di ritenere la riforma troppo permissiva.

Giancarlo Giorgetti, ministro economia e finanze

A un anno dalle elezioni europee, ognuno cercherà di tirare l’acqua al suo mulino e la stessa Von der Leyen, che ambisce alla rielezione, avrà qualche problema a confermare la volontà, pur solennemente espressa, di modificare i Trattati attraverso una Convenzione che sancisca la vocazione solidale dell’Ue.

Post-Covid e crisi gas frenano economia comunitaria

L’economia comunitaria è ancora frenata dal post-Covid e dalla crisi del gas, peraltro aggravata dalla politica monetaria della Bce, che alzando i tassi in chiave anti-inflazione si è disallineata dalle politiche di bilancio nazionali, costrette a muoversi con manovre redistributive per scongiurare recessione e conflitti sociali.

Com’è accaduto per la pandemia, l’Europa dovrebbe insomma mettere in campo una nuova condivisione del debito e strumenti comuni: la riforma del Patto di stabilità era già stata messa in agenda prima del Covid, nell’ambito di una revisione dell’intera governance economica comunitaria, perché già allora c’era la consapevolezza che servissero piani di rientro dal debito realistici e non draconiani: il rigore a senso unico aveva infatti causato troppi disequilibri. Ma c’è un mondo ancora forte in Ue che non vuole cambiare i meccanismi di sorveglianza sui conti pubblici, e farà di tutto per riaffermarli il più possibile.

I due capisaldi di Draghi

Draghi aveva proposto un Patto di stabilità con due capisaldi: integrare nel sistema europeo l’opzione, nei momenti di recessione, di programmi di debito comune ad hoc sul modello del Recovery Plan; e inserire un criterio di spesa pubblica che prevedesse un trattamento di favore per gli investimenti pubblici almeno nelle tecnologie e nell’ambiente, posizione sostanzialmente ribadita dal governo Meloni. D’altra parte, era stata la stessa Commissione a segnalare i troppi problemi indotti dal rigore a senso unico: le politiche fiscali degli Stati membri risultavano tendenzialmente pro-cicliche (non si riduceva sufficientemente la spesa in periodi di crescita, per poterla poi espandere in quelli di crisi), e gli investimenti non venivano finanziati a sufficienza.

Detto questo, l’Italia dovrà fare i suoi compiti a casa, non potendo contare più a lungo sul paracadute della Bce per sostenere il nostro debito e tenere sotto controllo lo spread (gli spifferi che arrivano da Moody’s non sono positivi): il debito va quindi gradualmente ridotto e il deficit tenuto sotto controllo, come previsto dalla legge di bilancio firmata Meloni-Giorgetti.

Bisogna puntare sul “debito buono” e porre fine alla stagione dei sussidi a pioggia. Ma ci vorrà un lavoro certosino per trovare un equilibrio tra conti in ordine e sviluppo, e per spingere l’Europa nella giusta direzione.

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