“Per riequilibrare i rapporti tra politica e magistratura si potrebbe reintrodurre l’istituto dell’autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari”. Non è un replay del nostro articolo di ieri, né la frase di un esponente del fronte politico garantista, ma la proposta di un magistrato – Angelo Piraino, segretario di Magistratura Indipendente – formulata in un’intervista apparsa stamani sul Foglio. Anche se si tratta di una voce isolata, è importante che anche all’interno della magistratura si stia aprendo una riflessione sull’urgenza di trovare una soluzione alla guerra dei Trent’anni sulla giustizia. Il ragionamento di Piraino è il seguente: le tensioni nei rapporti tra politica e magistratura derivano molto spesso – è ciò che sta accadendo adesso – dal fatto che “periodicamente e inevitabilmente” ci sono iniziative giudiziarie che coinvolgono esponenti politici e vengono viste come interferenze. Con un’osservazione aggiuntiva: in passato (il riferimento sembra essere a prima di Tangentopoli) queste vicende non venivano vissute con le stesse tensioni di oggi, da qui la proposta del ritorno all’autorizzazione a procedere.
L’obiezione più comunemente sollevata è che nella Prima Repubblica la politica abusò di questo strumento, rispedendo al mittente troppe richieste dei magistrati, ma anche su questo punto Piraino non ha dubbi: “L’immunità parlamentare nasce storicamente come una prerogativa a tutela del Parlamento, per evitarne il condizionamento da parte di iniziative esterne, ed è conosciuta in tantissimi ordinamenti occidentali. Con essa tutto viene ricondotto nell’ambito della responsabilità politica. Se una maggioranza abusasse di questa prerogativa ne risponderebbe davanti agli elettori”. Ragionamento ineccepibile destinato però o a scatenare polemiche o a finire nella rete censoria del politicamente corretto a cui anche il centrodestra, sull’argomento, si è da tempo inchinato per timore dell’impopolarità.
Del resto, la rinuncia all’immunità parlamentare fu approvata nel ‘93 dal Parlamento quasi all’unanimità: fu una sorta di suicidio collettivo le cui conseguenze si sono viste negli anni successivi, con governi mandati a casa da un avviso di garanzia e troppe inchieste giudiziarie a orologeria politica finite nel nulla. L’autorizzazione a procedere sanciva un equilibrio ragionevole tra potere politico e giurisdizione, drasticamente alterato proprio dalla modifica dell’articolo 68. Dei guasti di quella riforma parlò nell’ultima campagna elettorale l’attuale ministro Nordio, allora candidato di Fratelli d’Italia: “I padri costituenti – disse – da Togliatti a De Gasperi, da Nenni a Calamandrei, vollero l’immunità parlamentare come garanzia dalle interferenze improprie della magistratura. Sapevano benissimo che qualcuno se ne sarebbe servito a suo vantaggio, ma hanno accettato il rischio, perché quello della sovrapposizione di poteri era enormemente maggiore, come poi si è dimostrato”. Apriti cielo: la Lega prese subito le distanze, facendo proprio l’argomento populista che “bisogna pensare ai cittadini e non ai parlamentari”, e che “il tema non è una priorità in questo momento storico”. E’ passato quasi un anno, e forse una riflessione sul “momento storico” andrà fatta, visto che il governo è già assediato dalle iniziative giudiziarie…