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Con la strategia del ricatto, Trump manda in frantumi l’Unione europea

La Spagna si rifiuta di portare al 5% del Pil la spesa per la difesa e la sicurezza? Trump minaccia: per loro dazi più alti. Al G7 negozia ferocemente e ottiene l’azzeramento della Minimum Global Tax, con tanti saluti a Maurizio Gasparri e a quanti insistevano per la tassazione dei profitti delle Big Tech. Un ricatto dopo l’altro, Trump ha messo a nudo l’impotenza dell’Unione europea. Dopo tante randellate, però, nessun sovranista europeo può esultare per aver preso botte ai denti dall’”alleato” americano

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Si era preannunciata come una partita impari, resa ancora più complicata dalla mutevolezza di umore e dalla imprevedibilità di Trump. È il risultato per l’Unione europea è stato quanto meno deludente, secondo qualcuno più vicino alla catastrofe. Quello che appare oggi chiaro, e che tale non era ai suoi esordi, è che Trump ha avuto l’abilità di intrecciare partite fra loro diverse, giocando su più tavoli salvo, alla fine, riunirle in un unico tavolo con lui solo a dare le carte. E l’Unione europea a pagare i conti.

Dazi: ad aprile Trump ha celebrato il “giorno della Liberazione”. Liberazione dell’America dai troppi “parassiti” che, a suo giudizio, si sono approfittati della generosità americana e hanno invaso il Paese con le loro merci a prezzi competitivi mentre lo stesso trattamento di favore non avevano ricevuto le merci americane.

Il riequilibrio, secondo Trump, si doveva ristabilire imponendo dazi fino al 125% alla Cina, al 50% sull’acciaio grezzo e su quello lavorato importato dall’Europa e, sempre per l’Europa, dazi al 25% per il settore automotive, cioè auto, accessori e ricambi. L’Unione europea è apparsa subito incerta su quale dovesse essere la reazione più adeguata. Macron, subito duro, vorrebbe rendere la pariglia e, più sfumato ma d’accordo con lui, anche Merz.

L’abilità di Trump, meno sprovveduto e umorale di come lo avevano raffigurato le cancellerie europee, ha rinviato di volta in volta il termine per l’entrata in vigore. L’ultimo previsto – il 9 luglio – quasi certamente subirà un nuovo rinvio. Di fronte ai toni minacciosi del tycoon l’Unione non si è mai risolta a scegliere con decisione una strada, quella diplomatica o l’altra, quella della guerra commerciale, come aveva fatto con successo la Cina di Xi Jin Ping.

È a causa di questa irresolutezza che l’Unione è venuta a trovarsi in una posizione di crescente debolezza. Proseguire il dialogo, come sostengono Meloni e von der Leyen, oppure imboccare con decisione la strada delle ritorsioni tariffarie come sostenuto da Macron e Merz? Si è scelta la prima, con le conseguenze che si vedono: i dazi restano, su acciaio e automotive, e l’Ie ancora balbetta sulla risposta da dare.

Nato: sul secondo tavolo la partita è stata giocata tutta in discesa per Trump. Almeno da quando, a metà maggio, il suo battage propagandistico ha fatto breccia e il livello del 5% del Pil per finanziare il riarmo è diventato un articolo di fede per tutti gli alleati. Per tutti, ma non per lo spagnolo Pedro Sanchez.

Lui si è rifiutato al vertice Nato di accogliere la richiesta, ma ha firmato il documento finale in cui espressamente indicato il 5% come livello di spesa per la difesa da raggiungere entro il 2035. Questa discrepanza è già di per sé significativa, poiché indebolisce l’impegno formale sottoscritto da tutti con la riserva mentale di far entrare nel 5% spese che poco o nulla hanno a che fare con la difesa e la sicurezza.

La frittata è servita. Ricapitolando: Trump aveva esordito assicurando comprensione sui dazi, a condizione che gli alleati europei si facessero carico di maggiori spese per finanziare la Nato. Il che, a dire il vero, era il mantra che prima di Trump avevano intonato Barack Obama e “Jo” Biden, magari senza i toni ultimativi e minacciosi di Trump. Però la questione era stata posta e tale riconosciuta dagli alleati europei.

Ma la decisione, da tutti accolta, di portare al 5% del Pil le spese per difesa e sicurezza non ha annullato la volontà degli Stati Uniti di procedere con l’aumento dei dazi. Il che significa per l’Unione europea accollarsi oneri stratosferici, con ripercussioni inevitabili sul welfare state. Senza ricorrere a toni apocalittici, è di tutta evidenza che ci stiamo avviando a un cambiamento radicale nel nostro stile di vita. Con la classe media – o almeno quel poco che di essa rimane – destinata a pagare un prezzo sanguinoso.

Rimane una domanda, a giudizio di chi scrive, davvero cruciale: che ne potrà essere dell’Unione europea dopo essere stata frantumata da Donald Trump? Davvero l’Unione ritiene di sopravvivere solo per aver sfidato e vinto i divieti di Orbán sul Pride di Budapest? Oppure, quanto si sta consumando, giorno dopo giorno e sotto i nostri occhi, imporrà a tutti di accelerare il passo verso il mercato unico dei capitali o il completamento dell’Unione bancaria?

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