I manifestanti che affollano le piazze europee e americane per esprimere non si sa se più il sostegno incondizionato ai palestinesi o la loro avversione a Israele, al suo premier e al popolo ebraico non sono molto diversi dalle folle plaudenti che accolsero Chamberlain e Daladier a Londra e a Parigi dopo il vertice di Monaco, convinti di aver domato Hitler ed evitato la guerra che puntualmente si scatenò qualche mese dopo.
La solidarietà a Israele per il pogrom del 7 ottobre 2023 è durata lo spazio di un’emozione. Poi sono arrivate le immagini dei bombardamenti, dei tank israeliani entrati a Gaza e dei 1200 giovani massacrati, violentati, mutilati al rave e delle famiglie sterminate in un bagno di sangue si persa ogni memoria. Al punto che l’antisemitismo, nel primo anniversario di quella strage, pensa bene di spingersi a commemorare gli stragisti e non le loro vittime.
Il paradosso di quello che accade in Medio Oriente è tutto nelle reazioni divaricanti seguite all’uccisione di Hassan Nasrallah, capo politico di Hezbollah. In Europa e in America abbiamo ascoltato il silenzio imbarazzato delle diplomazie e le piazze rumorose inveire contro Israele, fino all’esortazione, sentita ieri a Milano, a segnalare le case dove risiedono cittadini di fede ebraica: come nella notte dei cristalli, nella Germania nazista, nel 1933. Le piazze siriane, libanesi e giordane si sono riempite di folle sunnite esultanti per la morte di un assassino sanguinario come il capo di Hezbollah. Due pianeti divisi da una distanza spaziale. Qui, in Europa, una generazione ubriacata dall’ideologia woke, dalla propaganda abile dei terroristi. Lì, l’esultanza di chi ha conosciuto sulla propria pelle che cosa significa convivere con chi disprezza la vita umana, la usa come strumento di propaganda e più ne muoiono e più efficace sarà il messaggio alle folle inebetite dell’Occidente.
Israele ha molti nemici: quelli armati fino ai denti sa come contrastarli, neutralizzarli, eliminarli. Quelli armati di voce e disarmati di intelletto sono però i più temibili. Israele combatte anche per loro e per tutti quelli che come loro non hanno la più vaga idea della posta in gioco.
Dopo essere stato colto impreparato dal pogrom del 7 ottobre, il governo Netanyahu ha impostato una reazione prima nei termini tradizionali, entrare a Gaza e cercare i terroristi nascosti negli ospedali o nelle case, poi ha alzato il tiro e aggiustato la mira: puntare sui capi politici e militari delle organizzazioni terroristiche, decapitarle della guida politica e strategica spezzando così l’assedio a Israele. Gli Hezbollah controllano il sud del Libano; Hamas insediato a Gaza e in vaste aree della Cisgiordania; gli Houti, nello Yemen del Nord, cioè a circa 2000 km, dotati di missili a lunga gittata. Tutti armati dal regime dei barbuti iraniani. Ali Khamenei, guida suprema dell’Iran, è il vero sconfitto di questi giorni.
Le Ifd (Israelian forces defence) hanno colpito per primo Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, ucciso a Teheran, il 31 luglio, da una bomba collocata nell’edificio che lo ospitava. Molte le ipotesi sull’organizzazione dell’attentato, in tutte emerge il sospetto di quinte colonne iraniane, di settori militari contrari al regime teocratico.
A lui succede Yahya Sinwar. Venerdì 27 settembre è stato un giorno fatale per Hassan Nasrallah, capo politico di Hezbollah, ucciso da un bombardamento israeliano su un quartiere a sud di Beirut. Prima di Haniyeh e Nasrallah sono stati eliminati importanti dirigenti politici e militari delle due organizzazioni terroristiche.
Ci sono state molte vittime fra i civili, la cui entità è fornita da Hamas ed Hezbollah ma da nessuno è mai stata verificata. In ogni guerra, e quella di Israele al terrorismo è una guerra, il prezzo più elevato lo paga la popolazione civile. Dopo l’uccisione di Haniyeh il regime iraniano ha annunciato rappresaglie immediate. Lo stesso è accaduto venerdì, dopo l’eliminazione di Nasrallah. In questo caso, Teheran ha comunicato che avrebbe fatto entrare il suo esercito in Libano. In entrambe le circostanze non è accaduto nulla.
Al regime iraniano non è stato sufficiente eleggere un presidente della Repubblica Masoud Pezeshkian, circondato dall’aura di moderato. La guida suprema, Ali Khamenei, riveste, per la costituzione del Paese, il ruolo insindacabile di guida spirituale e politica e vengono da lui le direttive in cui è racchiuso il solo e unico mandato che legittima il potere in Iran: la distruzione di Israele con qualsiasi mezzo. Trent’anni di attività terroristiche, finanziate generosamente da Teheran non hanno raggiunto lo scopo. Sotto qualsiasi governo, laburista o conservatore, Israele ha dovuto accettare la dura realtà di uno Stato costretto ad armarsi e a difendersi da nemici il cui unico obiettivo è la sua distruzione.
Quanto è accaduto e accadrà nelle prossime settimane sta modificando in profondità il quadro strategico e geopolitico non solo in quell’area. Le risposte annunciate dall’Iran e mai arrivate segnalano difficoltà nuove ma non imprevedibili di quel regime. Impegnato a rifornire la Russia dei migliaia di droni da impiegare in Ucraina, Teheran sta esaurendo le risorse militari e finanziarie dopo decenni di assedio terroristico a Israele. Non ci sono altre spiegazioni alle mancate reazioni militari. C’è, inconfessato, il timore di un confronto militare diretto con Israele da cui il regime iraniano uscirebbe scosso se non proprio distrutto. Per Khamenei sarebbe insostenibile aprire un fronte esterno dovendo già fronteggiare una società civile ribollente, ansiosa di conquistare quelle libertà di vita quotidiana di cui noi beneficiamo e le cui immagini scorrono sui tablet e sui computer.
Un’altra e più sottile ragione sconsiglia e impedirà a Teheran di andare allo scontro diretto. La più che sicura sconfitta militare contro Israele lascerebbe “scoperti” sul piano diplomatico gli alleati degli ayatollah, cioè Russia, Cina e Corea del Nord. Nessuno dei quali sarebbe disposto “a morire per Teheran”. Così funziona l’alleanza fra i “Paesi canaglia”.
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