Il rischio che incombe sull’Occidente è per lo più ignoto a chi vi abita, alle sue élites come ai suoi cittadini, ai democratici come ai sovranisti di ogni colore e latitudine. Il pogrom del 7 ottobre 2023, il più grande dai tempi dei lager del Terzo Reich, ha debellato ogni velleità diplomatica, irriso la retorica bolsa di questo tempo e quanti coltivano la speranza che ogni cosa possa tornare al suo posto ripetendo come un mantra “due popoli, due Stati” come se la questione si potesse risolvere con un accordo fra lo Stato di Israele e i rappresentanti che i palestinesi non hanno o forse non hanno mai avuto.
Il 7 ottobre chi ha voluto comprendere ha compreso: la questione del Medio Oriente non esiste. Esiste nella sua tragica e rinnovata dimensione la “questione ebraica”, al cui interno è racchiusa la questione della sopravvivenza della civiltà occidentale. L’aggressione terroristica a Israele è parallela all’aggressione non meno terroristica di Vladimir Putin all’Ucraina: è l’assedio dei poteri autoritari e terroristici all’Occidente, è il loro rifiuto del fatto che la fine del dopoguerra non ha cambiato, come era nei loro desideri, gli equilibri costruiti dopo il 1945. Con l’America a scandire i tempi e la dimensione della globalizzazione, e gli altri che stentano a tenere il passo.
La questione palestinese diventa marginale in un contesto che prevede una posta in gioco molto più alta, come la cancellazione di Israele dalla carta geografica e lo sterminio degli ebrei. A questo obiettivo lavora da decenni il mondo sciita sotto la guida oggi di Ali Khamenei, ieri di Ruhollah Khomeini, fondatore nel 1979 della Repubblica islamica e del potere teocratico. La fine della Repubblica laica di Rehza Pahlevi e la costruzione di uno Stato retto dalla Sharia hanno rivoluzionato la mappa del potere sull’intera area e riscritto l’agenda politica. Il “grande Satana”, come Khomeini aveva ribattezzato gli Stati Uniti, e il suo emissario nell’area, Israele, vennero indicati come i nemici prioritari da combattere e annientare.
Si parla qui di vicende remote, sconosciute a molti dei giovani che sabato scorso scagliavano pietre, molotov e sbarre metalliche contro la polizia che sorvegliava la loro manifestazione alla Stazione Ostiense di Roma. In quelle vicende, però, affondano le radici di tutto quanto è accaduto nel mondo dopo il 1979. La proclamazione della “guerra santa” all’America e ai suoi plenipotenziari “sionisti” nella regione divenne la ragione fondante del regime teocratico e delle organizzazioni terroristiche create nel tempo allo stesso scopo. Quella missione, perché di una missione si tratta per il mondo sciita, è stata perfino costituzionalizzata nello statuto di Hamas, al punto 7, ed è parte decisiva nella sharia dove l’uccisione dei “cani infedeli” è la via più rapida e sicura per giungere, attraverso il martirio di sé, al paradiso di Allah.
Il 7 ottobre 2023 viene da molto lontano. La domanda destinata a rimanere senza una risposta plausibile, o ad averne talmente troppe da essere tutte insoddisfacenti, è anche quella più inquietante: perché l’Occidente ha paura di guardare dentro il pogrom del 7 ottobre? Il timore di vedervi riflessa la propria immagine deturpata da decenni di viltà e di ipocrisia è forte, come forte è la paura di ritrovarvi le troppe verità taciute o nascoste a un’opinione pubblica, che sapeva assopita e ubriacata dalla propaganda di un terzomondismo che ha caricato sulle nostre spalle e sulla nostra storia secoli di sopraffazioni, molte vere e moltissime false o presunte.
Come altrimenti spiegare l’afflato pro-Pal dei manifestanti a New York, Londra, Roma, Parigi o degli studenti di Cambridge, Princeton, New York University, Sorbona? Le loro ragioni ribaltano le ragioni delle folle nei Paesi sunniti che hanno esultato, ad Amman o a Beirut, per l’uccisione di Nasrallah, leader degli Hezbollah in Libano. Il rovesciamento dei ruoli, e della storia nel suo svolgimento, ha costruito quel “mondo al contrario” su cui avrebbe fatto bene a spendere qualche parola il generale Roberto Vannacci invece di impelagarsi nelle osservazioni oscene, oscene perché superficiali, sul declino della nostra “società aperta”.
Avrebbe scoperto che una civiltà declina e muore quando si chiude nelle sue ragioni mentre vive e prospera quando quelle ragioni sa diffonderle e farle accettare ai suoi avversari. Si muore per eccesso di chiusura e mai di apertura. Aprirsi agli altri è una sfida e l’Occidente ha prosperato, costruito e distribuito benessere perché ogni volta sapeva raccogliere e vincere le sfide. Israele racchiude il senso di tutte le sfide secolari: la sopravvivenza dello Stato laico e del popolo ebreo è un tornante della storia da cui non si può tornare indietro.
Chi immagina, e non sono pochi, che la cessazione dei combattimenti o una tregua purchessia rimetteranno al loro posto le tessere del mosaico non ha colto la profondità delle minacce che attraverso Israele si indirizzano sull’Occidente. Una tregua con la sopravvivenza del regime teocratico in Iran significa soltanto rimandare di qualche tempo una resa dei conti che resta nell’aria. E significa frustrare le speranze di quelle donne e di quegli uomini che in Iran combattono ogni giorno e dei quali non abbiamo più notizie sui nostri media.
Un leader politico del secolo scorso, Ugo La Malfa, aveva visto, a dispetto della miopia che lo accompagnò per tutta la vita, molto più lontano del suo tempo. “L’Occidente – disse a un congresso del Partito Repubblicano, di cui era indiscusso leader – si difende sotto le mura di Gerusalemme”. Oggi manca un leader politico della sua grandezza. La Malfa avrebbe guardato dentro il 7 ottobre e raccolto senza tentennare la sfida dei nemici dell’Occidente.
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