Le parole di Sergio Mattarella sono prudenti, ma mai in lui la prudenza è stata a scapito della chiarezza. Da Bucarest, mercoledì 19 giugno il presidente della Repubblica ha rivolto un appello, e un po’ anche un monito, ai leader europei. “Mi auguro che la soluzione che dà vita ai vertici esprima, garantisca e promuova serenità nei rapporti dell’Unione e non fratture o conflittualità che renderebbero difficile risolvere e affrontare in maniera adeguata problemi così rilevanti. Serve quindi che vi sia una condizione in cui si possa garantire che queste scelte vengano fatte in una convergenza ampia”.
Come si intuisce, quello di Mattarella è un invito esplicito a non arroccarsi su posizioni ideologicamente escludenti, a non sottovalutare il peso politico dei risultati delle europee. Il sottotesto, insomma, dice a Macron, Scholz e Tusk di lavorare per il pieno coinvolgimento dell’Italia nella definizione dei nuovi equilibri europei. Se poi si guarda a Roma, il monito di Mattarella riguarda da vicino Giorgia Meloni: vanno messe da parte pregiudiziali ideologiche, di appartenenza a famiglie politiche per guardare agli interessi più ampi dell’Europa, alle sue urgenze in materia di sicurezza e difesa, di crescita economica e sociale.
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Si può supporre che le parole di Mattarella siano state ben accolte da palazzo Chigi. Certo, altra cosa è dare un seguito concreto sul piano dell’azione politica. Il gruppo dei conservatori è il terzo, dopo il voto del 9 giugno, per consistenza numerica, sopravanza di poche unità i liberali di Macron precipitati in quarta posizione. Come ben sa Meloni, la questione non è però di numeri. Se così fosse, tutto si risolverebbe in un baleno. La sostanza politica riguarda qualcosa di più profondo, investe la mentalità, lo spirito con cui si affrontano i problemi, quelli comuni e quelli specifici dei singoli Stati. Non si entra nelle sale di palazzo Berlaymont a Bruxelles annunciando “cambieremo l’Europa come stiamo cambiando l’Italia”.
Perché, d’accordo, Fratelli d’Italia ha stravinto le elezioni, ma la proiezione europea di quella vittoria è resa terribilmente complicata dalle compagnie che Meloni si ritrova nel gruppo dei conservatori. Orbán è sulla soglia, e Meloni non sembra intenzionata ad aprirgli la porta. Per Le Pen vale lo stesso discorso. Entrambi, poi, si portano dietro le ombre di una “special relationship” con Vladimir Putin e tanto basta per coprirli di una solida diffidenza e tenersene a distanza di sicurezza. Se Meloni ha aperto poi ai conservatori rumeni del poco raccomandabile Aur, partito conservatore con forti tinte xenofobe e omofobe, non è per simpatia nei loro riguardi quanto invece per rimpolpare nei numeri il gruppo parlamentare a Strasburgo.
Che cosa manca a Giorgia Meloni per arrivare a occupare la sedia attorno al tavolo dove si prendono le decisioni? Ha i voti in Italia, è il terzo gruppo a Strasburgo, è allineata al millimetro con l’Unione europea e la NATO nel sostegno all’Ucraina. Ma avverte e sente la diffidenza degli Scholz, dei Macron, dei Tusk nei confronti di una premier, ad esempio, che preferisce essere chiamata al maschile “il premier”. Per dirne una. Oppure di una donna che confonde la maggioranza di cui dispone in Parlamento, con la maggioranza che si deve formare per eleggere il presidente della Commissione che non viene scelto soltanto per il nome ma soprattutto per i programmi che saprà mettere in cantiere.
Come negare la giustezza delle battaglie condotte dal governo Meloni contro la transizione green impostata secondo un criterio ideologico e dunque irrealistico? Vinta quella battaglia, si poteva e doveva evitare di indossare le mostrine e i pennacchi come chi ritenesse di scendere da un ring. L’Unione europea è anche un ring, sicuro, ma non lo è sempre. Più spesso si costruiscono relazioni, basate anche sull’empatia personale, ma scavalcando le distanze politiche e ideologiche.
Non è bello, e neanche facile, dopo una campagna elettorale condotta al grido “mai con le sinistre”, ritrovarsi al tavolo per negoziare con socialisti, liberali e popolari per l’assegnazione delle cariche. Si tratta allora, per la presidente Meloni, di espungere dal suo vocabolario quell’avverbio “mai” carico di un che di fatidico e ultimativo. E acconciarsi alla realtà della buona politica dove il “mai” non trova facile cittadinanza.
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