Il dilemma di Elly Schlein è riassunto nel mantra nannimorettiano: mi noto di più se vado e me ne sto in disparte, oppure se non vado e me ne sto a casa? L’obiettivo sarebbe poi l’ennesima piazza contro il riarmo, contro le stragi di Israele a Gaza, contro la guerra israelo-iraniana. Contro tutto ciò che turba la weltschauung della sinistra al borotalco. Elly Schlein ha fatto sapere che sarà a Utrecht, in Olanda, a un incontro con i socialisti europei. Diserterà dunque la “chiamata alla pace” di quel demagogo e furbacchione di tre cotte che è Giuseppe Conte. Lui ci sarà, sabato 21 giugno, a Porta San Paolo a Roma, con le altre 440 sigle di movimenti pacifisti: un po’ come dire che ci sono 440 modi diversi per parlare di pace. Il Pd non ha detto proprio no. Ha detto veltronianamente che se singoli esponenti vogliono scendere in piazza possono farlo, ma solo a titolo personale. Una trovata tanto ingenua ha un sottotesto disarmante: la politica estera del Pd può deciderla chiunque, purché sia “a titolo personale”.
Chiariamo un punto: Elly Schlein non è sola in questa scelta perché come lei, ma da posizione di maggiore responsabilità, si muove Giorgia Meloni e la maggioranza. Loro si nascondono dietro il mantra della de-escalation. Schlein, decisamente più impolitica, ha scelto di giocare a nascondino. La manifestazione contro i massacri a Gaza è stato un appuntamento più agevole da gestire. Messi sotto controllo i cartelli più compromettenti, come “un solo Stato dal fiume al mare”, il resto è filato relativamente liscio. Certo, nessuno si sarebbe aspettato – come pure avrebbe voluto il buon senso – un richiamo alla strage del 7 ottobre 2023, a quello che si è configurato ed è stato un vero genocidio con la mutilazione orrenda di oltre 1200 corpi di cittadini ebrei. Il Pd sì è accodato al silenzio di quella piazza.
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Diverso, e decisamente più compromettente, si presenta l’appuntamento di sabato 21 giugno. La convocazione ufficiale fatta dal M5S parla di una manifestazione contro il piano di riarmo europeo, di condanna di Israele per le stragi di Hamas e la guerra contro la Siria. Nulla di nulla, il vuoto più assoluto, sull’aggressione di Putin all’Ucraina, sulla corsa di Ali Khamenei alla bomba atomica. Un silenzio assordante in cui il Pd rischiava di perdersi e di perdere l’ultima, residua credibilità come forza di governo. È mancato, e manca il coraggio di dire “no, stiamo sbagliando: l’Iran è una minaccia non solo per Israele ma per tutte le democrazie e neutralizzare quel Paese è nell’interesse di tutti coloro che amano la pace”. Così dovrebbe parlare una forza di sinistra, liberale e democratica. La pace si alimenta disinnescando le minacce, con la diplomazia, certamente, ma anche con la forza quando la diplomazia fallisce o porta a un vicolo cieco.
Fra i contestatori della guerra israelo-iraniana, nessuno ha finora ricordato un particolare rilevante, molto più del possesso o meno della bomba atomica: la legge approvata dal Parlamento iraniano, nel 2021, con cui si impegnano i governi futuri a perseguire entro 20 anni la distruzione dello Stato di Israele. Israele, Stati Uniti e l’Occidente in generale sono i nemici da combattere strenuamente in quanto “cani infedeli”. Nel recente passato il regime islamico ha dato qualche prova di flessibilità negoziale, fino a raggiungere, nel 2015, un accordo che fece esultare le componenti riformiste di Teheran. Si sa come poi finito, con l’arrivo di Trump nel 2016: cestinato senza esitazione, ma con soddisfazione del governo israeliano.
Il popolo che sabato 21 giugno scende in piazza ha altri obiettivi. In piazza si va per contestare e non certo per fare proposte. Si manifesta per condannare qualcuno o qualcosa e non per invocare qualcuno o qualcosa. Chi invoca la pace lo fa con mille buone ragioni, se pensa che si possa raggiungere solo fermando Israele, allora quella persona è in malafede o incapace di leggere gli eventi che accadono.
Schlein fin qui è arrivata. Il Pd non sarà in piazza il 21 giugno. È solo un primo passo, largamente insufficiente per definire una politica estera. Non basta, come dice il poeta “codesto solo oggi possiamo dire/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Un grande partito ha il dovere di dire anche che cosa è e che cosa vuole. Se lascia che sia Conte a parlare per il Pd, allora vorrà dire che il Pd non c’è più.
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