No ai bambini in carcere: è una questione di civiltà

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La proposta di legge sulle madri detenute naufraga ancora. Il Pd l’ha infatti ritirata accusando il centrodestra di averne stravolto la ratio con i suoi emendamenti approvati in commissione

La proposta di legge sulle madri detenute doveva approdare lunedì nell’aula della Camera, e l’auspicio era che questa volta, dopo anni di rinvii, questa piccola ma importantissima riforma andasse finalmente in porto. Invece no: il Pd l’ha infatti ritirata accusando il centrodestra di averne stravolto la ratio con i suoi emendamenti approvati in commissione. Il nodo della discordia è costituito dalle recidive: Fratelli d’Italia e Lega sono infatti contrari a una norma che consentirebbe alle borseggiatrici Rom di continuare a delinquere facendosi scudo dei figli piccoli e del fatto di essere incinta. Ma in questo caso l’interesse superiore dei bambini, a differenza della pretesa delle coppie gay di iscrivere i figli all’anagrafe sdoganando l’utero in affitto, è davvero preminente, perché passare i primi anni di vita in una struttura carceraria può segnare drammaticamente la crescita e il sacrosanto diritto di socializzare, col rischio di un’emarginazione precoce. I bambini interessati sono attualmente poco più di venti, e non sussiste dunque un grave allarme sociale per tenerli in carcere insieme alle madri recidive. Deve vigere insomma il principio che un bimbo in tenerissima età non può pagare le colpe di chi lo ha messo al mondo.

I tentativi della passata legislatura

Nella passata legislatura si arrivò a un passo dall’approvare lo stesso testo di legge ripresentato e ora ritirato: dopo il via libera della Camera a larghissima maggioranza, infatti, mancava solo il sì del Senato, che non arrivò solo a causa della crisi del governo Draghi che sfociò nelle elezioni anticipate. Quella dei bambini costretti a scontare insieme alle mamme la pena in carcere o in altre strutture detentive è una questione di civiltà che in realtà era già stata affrontata da due leggi: la 40 del 2001, che prospettava una serie di misure per evitare la detenzione all’interno delle carceri alle donne con figli minori di 3 anni, ma che fu largamente disapplicata dai giudici e presentava dei limiti nell’accesso ai benefici, soprattutto per chi era in attesa di giudizio; e poi la 62 del 2011, approvata per conciliare da un lato l’esigenza di limitare la presenza nelle carceri di bambini in tenera età e dall’altro di garantire la sicurezza dei cittadini anche nei confronti delle madri di figli minori che hanno commesso reati. La legge prevedeva per queste mamme – e per le donne incinta – di poter scontare la reclusione non superiore a quattro anni (anche se parte residua di una pena maggiore) in case famiglia protette o comunque in istituti a custodia attenuata, ma anche in questo caso la fase attuativa è stata del tutto deficitaria, mancando gli interventi necessari per allestire un numero sufficiente di strutture adeguate, che sono rimaste poche e non attrezzate. Un disimpegno delle istituzioni denunciato in più occasioni da un protagonista di tante battaglie garantiste come Luigi Manconi, ex presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, che su questo vulnus così sensibile non ha mai fatto mancare la sua voce autorevole. Anche la giurisprudenza costituzionale ha evidenziato in numerose occasioni la speciale rilevanza dell’interesse del figlio minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, non sottraendolo però in assoluto a un possibile bilanciamento con interessi contrapposti, anch’essi di rilievo costituzionale, come la difesa sociale, con la necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore per la commissione di un reato. Un bilanciamento rimesso, in via di principio, alle scelte discrezionali del legislatore. Il testo originario riprendeva in modo testuale quello approvato dalla Camera nel 2022, che sanciva il divieto per i bambini fino a sei anni di scontare insieme alle madri la pena in carcere o in altre strutture detentive, privilegiando i trasferimenti in case famiglia.

L’obiettivo deve essere la tutela dei minori

Secondo i dati del ministero della Giustizia attualmente sono 24 i bambini che vivono con le madri in istituti detentivi, ma nel recente passato sono stati molti di più, e comunque secondo Manconi “è una cifra in apparenza modesta, ma una grande infamia, forse la più oltraggiosa per la nostra civiltà giuridica tra quante se ne consumano quotidianamente nei luoghi di privazione della libertà personale”.
Bisogna in effetti partire da un dato incontestabile: il carcere è di per sé un luogo incompatibile con le esigenze di socializzazione e di corretto sviluppo psico-fisico del bambino, e dunque sarebbe necessario individuare sistemi alternativi, perché i minori reclusi – Manconi li definisce “innocenti assoluti” – sono costretti anch’essi ai tempi e ai modi della vita detentiva, e i tentativi di dotare il sistema carcerario di uno specifico ordinamento penitenziario pensato per i minorenni non hanno ancora prodotto risultati apprezzabili. Il punto centrale è la realizzazione di case-famiglia protette, ambienti più “umani” rispetto al carcere, dove organizzare la convivenza necessaria tra madre e figlio piccolo, o comunque l’individuazione di strutture analoghe in cui alla madre detenuta sia consentito, ad esempio, di accompagnare il figlio al pronto soccorso, perché è inimmaginabile che un bambino possa affrontare da solo situazioni del genere senza sentirsi abbandonato. Ovviamente, per queste madri non devono essere ravvisate le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, il pericolo di fuga o di commissione di ulteriori gravi reati. Ma in tutti gli altri casi l’obiettivo primario deve essere la tutela dei diritti dei minori, agevolando il ripristino della rete di rapporti familiari in funzione del suo equilibrato sviluppo.

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