La sua idea era rendere più facili e dignitose le assunzioni delle categorie più svantaggiate, come i rider di oggi, prefigurando un solido paracadute di ammortizzatori sociali tra un impiego e l’altro. E’ paradossale che sia invece stato messo all’indice come l’ideologo del lavoro precario
Il 19 marzo del 2002 Marco Biagi fu assassinato sotto casa a Bologna da un commando delle Nuove Brigate Rosse: fu l’ultimo sussulto del terrorismo che aveva fatto della guerra ai giuslavoristi la sua ultima frontiera ideologica. Tre anni prima era caduto Massimo D’Antona. Il ventunesimo anniversario della morte è l’occasione per onorare un autentico riformista troppo a lungo dimenticato dalle istituzioni e la cui memoria è stata spesso infangata da critiche tanto superficiali quanto infondate. Biagi sapeva di essere in pericolo, ma lo Stato lo lasciò colpevolmente solo, così come lo aveva isolato politicamente la sinistra nemica delle riforme, mentre lui era un riformista a tutto tondo, che col suo Libro bianco cercò di migliorare la vita dei lavoratori invisibili, quelli pagati in nero e senza tutele, e non certo di mettere in forse le tutele acquisite, come tuttora sostengono i detrattori della sua riforma. Biagi in realtà guardava avanti: la sua idea era quella di rendere più facili e dignitose le assunzioni delle categorie più svantaggiate, come i rider di oggi, prefigurando un solido paracadute di ammortizzatori sociali tra un impiego e l’altro, ed è paradossale che sia invece stato messo all’indice come l’ideologo del lavoro precario.
Gli obiettivi della sua riforma
La sua riforma in realtà modernizzò il nostro mercato del lavoro, che Biagi riteneva essere il peggiore d’Europa, dal punto di vista della capacità di inclusione, cioè di determinare alti tassi di occupazione, e che proprio grazie al percorso avviato da Treu e proseguito con la legge Biagi e poi con il jobs act, qualche concreto passo in avanti lo ha fatto, fino alla controriforma del decreto Dignità voluta dal populismo grillino.
Il pollice verso alle riforme del lavoro è sempre arrivato dalla parte più conservatrice del sindacato, che arroccata nei suoi fortilizi ideologici è stata anche l’acerrima avversaria di Biagi e della sua dottrina della flessibilità (la flexicurity di cui tanto si è parlato in questi anni era l’anima stessa del suo Libro bianco). Eppure, grazie alle politiche ispirate a quella dottrina, il nostro mercato del lavoro riuscì a innescare, pur fra mille contraddizioni, una dinamica di crescita ininterrotta per i primi otto anni del Duemila, nonostante le performance scadenti dell’economia e un sistema di welfare divenuto obsoleto, che usava le risorse dei più deboli a favore dei garantiti, ma che per i nostalgici della lotta di classe rappresentava un totem intoccabile. Il disegno riformista di Biagi era invece teso all’emersione-inclusione dei disoccupati attraverso il “welfare to work”, con la trasformazione dei sussidi assistenziali da mera integrazione al reddito a incentivi per un veloce reimpiego per garantire maggiore flessibilità a ogni singolo rapporto di lavoro e maggior protezione della persona nel mercato del lavoro.
Riequilibrare la spesa sociale in favore dei giovani
La sua lezione era pienamente radicata nel corpo vivo del Paese, e partiva dal presupposto che l’Italia non riuscirà mai ad affrontare i nuovi bisogni, e a riconoscere i nuovi diritti, se non sarà in grado di riequilibrare la spesa sociale in favore dei giovani: un messaggio che più attuale non potrebbe essere, alla luce delle successive crisi culminate con la pandemia e col Next Generation Eu. Se negli anni Novanta le idee di Marco Biagi sembrarono fin troppo innovative, in realtà rappresentavano un orizzonte necessario, con la creazione di un mercato del lavoro più moderno, più inclusivo e più aperto a giovani e donne, ossia agli esclusi di sempre che hanno pagato il prezzo più alto anche dei terribili anni del Covid. Di sicuro, senza Biagi oggi saremmo molto più indietro: non a caso la sua riforma è diventata un modello in Europa.