La Lega scende dall’autobus della storia

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A Vittorio Veneto avevano preparato i tramezzini, ma il candidato non è arrivato. E’ un’immagine banale, eppure racconta bene la parabola di un partito che non arriva più in tempo, né agli appuntamenti con la piazza, né a quelli con la propria storia.

La Lega, da movimento radicato nel Nord produttivo, è oggi una forza sospesa tra Roma e Pontida, tra i simboli di un passato orgoglioso e le incertezze di un presente che non parla più la lingua delle sue origini.

Il malessere che attraversa il Carroccio non nasce con la disfatta in Toscana, ma lì si rivela senza filtri. Roberto Vannacci, il soldato della destra radicale, il patriota da talk-show, diventato eurodeputato e vice di Salvini, doveva rappresentare la svolta, la linfa nuova, l’uomo “fuori dagli schemi” capace di rianimare il leghismo. È finito invece nel tritacarne delle logiche di partito, tra fedelissimi delusi e sostenitori pronti alla fuga. “Il mondo al contrario non si raddrizza camminando accanto a chi l’ha ribaltato”, ha detto una delle sue prime sostenitrici, Stefania Bardelli, la “bersagliera di Varese”. È una frase che vale più di mille analisi: dentro c’è il disincanto, la disillusione, e la consapevolezza che la Lega non è più casa per chi ci aveva creduto.

L’esperimento Vannacci, sostenuto e poi catturato come un Pokemon da Salvini, ha svelato tutto: un partito che si proclama popolare ma non parla più la lingua del suo popolo. Il Nord, quello del lavoro e delle amministrazioni solide, si è disconnesso: la Lega oggi funziona come un’app che non aggiorna più la mappa.

E dire che quel Nord, un tempo, era anche uno stile di vita: la Milano degli Yuppies, dei fax che sfrigolavano e dei sogni d’impresa. Gente che produceva, rischiava, costruiva.
Oggi sembra un’altra era: più “money before people” che il contrario, più rancore che visione. Il Nord non sogna più, fa i conti. E aspetta qualcuno che gli ricordi che la politica non è un grafico Excel.

Il caso Veneto è la fotografia perfetta di una Lega in apnea. Alberto Stefani, il giovane candidato designato, parte con il gelo addosso: alleati distratti, militanti in stand-by, e Zaia che, più che caposcuola, sembra un pensionato milionario che osserva la scena da lontano.
L’uomo del 70% non trova spazio nel suo partito: segno che il Carroccio ha perso il senso delle proporzioni, oltre che del territorio.

Da qui si intravede la traiettoria del declino: una forza nata per rappresentare il Nord che rischia di chiudersi di nuovo dentro i suoi confini. Salvini ha trasformato la Lega in un partito nazionale, ma nel tragitto ha smarrito il dizionario padano. E oggi, mentre Meloni detta l’agenda e Forza Italia si rimette in giacca e cravatta, la Lega resta in mezzo, con la divisa mimetica stropicciata e poche idee chiare.

In tutto questo c’è una lezione che va oltre la cronaca. I partiti durano solo se riescono a tenere insieme le radici e la visione. La Lega di oggi, invece, oscilla tra la nostalgia di ciò che era e la ricerca di un nuovo “noi” che ancora non c’è.
Il “mondo al contrario” evocato da Vannacci finisce per diventare la metafora più precisa: un universo dove gli ex militanti si trasformano in critici, i governatori in problemi, e il Nord in un treno fermo al binario.

Ogni stagione politica ha una fine, e questa sembra ormai segnata. Non per destino, ma per consunzione: perché quando la protesta diventa mestiere e la parola “autonomia” perde significato, la politica smette di rappresentare e comincia solo a sopravvivere.
Forse altri sapranno raccogliere ciò che di buono il leghismo aveva promesso (la concretezza, la fiducia nel lavoro, il legame con la comunità) senza le derive di chi ne ha fatto un marchio personale.

Perché oggi la Lega non è più la voce di un territorio, ma l’eco di un’ambizione esaurita. E da quell’eco, difficilmente, nascerà qualcosa di nuovo.
A meno che a Pontida non riaprano i miracoli.

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