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Landini ha organizzato il referendum, Schlein lo ha perso, Conte aspetta sulla riva

Non si può dire che sia stato un capolavoro di strategia. Tutti - gli organizzatori per primi - sapevano che il quorum sarebbe stato impossibile. La motivazione di Schlein è che i referendum sul lavoro erano necessari per ridefinire l’identità del Pd. Gli osservatori si concentrano sul terzo di “no” al quesito sulla cittadinanza. In prospettiva pesa più quell’11% di no all’abolizione del jobs act. La destra esulta perché è riuscito il sabotaggio del referendum. Strana competizione: si conoscono gli sconfitti - Schlein e Landini - ma non ci sono vincitori. Come può aver vinto chi si era proposto di non far disputare la competizione?

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Troverà ampio spazio negli annali di strategia politica la débâcle referendaria di domenica 8 e lunedì 9 giugno 2025. Ai futuri studenti di scienze politiche verrà spiegato che c’è stato un tempo, in un Paese chiamato Italia, in cui pensare e fare politica era un’attività non troppo diversa da un sabba in cui ciascuno dei protagonisti improvvisava un movimento, accennava un’idea e tutti gli altri si associavano per ragioni esattamente opposte a quelle di chi la proponeva.

Il risultato delle urne è stato inutilmente impietoso in mancanza del quorum. Se a votare è andato meno di un elettore su tre, vuol dire che lo strumento referendario è logoro. Più esattamente è stato logorato dall’uso strumentalmente politico che ne fanno i proponenti. Le grandi battaglie referendarie di Marco Pannella – sul divorzio e sull’aborto – avevano il pregio di toccare temi tanto generali quanto vicini alla vita di ciascuno. E gli italiani andavano a votare essendo fortemente motivati.

Come può essere venuto in mente a Landini di proporre un referendum con quattro quesiti tecnici che avevano tanto l’aspetto di fumo agli occhi del povero elettore? Il quesito sulla cittadinanza, proposto da +Europa, ha avuto più del 34% di no, cioè un italiano su tre è contrario ad abbreviare da 10 a 5 anni il tempo di permanenza perché un immigrato, con lavoro regolare, possa fare domanda di cittadinanza italiana. Se si considera che a votare sono andati – almeno sulla carta – elettori di centrosinistra, Landini e Schlein e Riccardo Magi avranno di che riflettere sulla loro iniziativa.

Qui, però, preme valutare la dissennatezza politica che ha spinto il gruppo dirigente del Pd a impegnare il partito in una battaglia politica il cui unico obiettivo era un regolamento di conti con la stagione politica di Matteo Renzi. Schlein lo ha detto con un candore al limite della stoltezza, inconcepibile in un leader politico: archiviare quella stagione e recuperare l’identità del Pd. Ha detto esattamente così, Elly Schlein, parlando di Matteo Renzi da poco recuperato all’alleanza di centrosinistra. Il povero lettore di queste, se è stato anche alle urne, non faticherà a riconoscere in queste capriole dialettiche del Pd la premessa di nuove e più clamorose sconfitte.

Dall’apertura delle urne, nel pomeriggio di lunedì 9 giugno, la componente dei cosiddetti “riformisti” del Pd si è fatta sentire per denunciare il fallimento dell’intera operazione. Nata per dare una spallata al governo, ha finito per amplificare il senso di confusione e di smarrimento nella base del Pd. Schlein non ha ammesso la sconfitta – che è stata netta, bruciante e contestata soltanto da chi non sa contare fino a 10 – ha invece visto in quel risultato la premessa per costruire l’alternativa a Meloni. E cosa di meglio per convincersi di questo che citare Bernie Sanders, l’eterno candidato alla presidenza americana che si dichiara apertamente socialista ed eternamente sconfitto?

Nella babele delle idee e di valutazioni sul referendum si è ben guardato dal mettere la faccia quel furbacchione di Giuseppe Conte. Landini ha organizzato il referendum per mostrare bandiera, Schlein se ne intesta la sconfitta politica, e Conte rimane sulla riva ad aspettare il ritorno degli elettori. Difficile dire fin dove potrà spingersi il ma,contento dei riformisti Pd.

È fuori luogo immaginare la scissione del partito, più verosimile appare al momento l’avvio di un chiarimento interno, in una sede ancora da definire, con il riconoscimento delle difficoltà politiche ma anche del ruolo che spetta ai riformisti nella ridefinizione dell’identità del partito. Schlein, è risaputo, ascolta con attenzione le riflessioni di Goffredo Bettini il quale, a stretto giro, ha fatto sapere che la riorganizzazione di una componente moderata è un passo imprescindibile per dare linfa e nuove energie all’alternativa che si vuole costruire.

C’è, nel ragionamento di Bettini, un non detto pesante: la radicalità della linea fin qui espressa non è stata sufficiente per gonfiare i consensi del Pd. Fratoianni&Bonelli e Conte non bastano a vincere le elezioni. Giusto. Il punto è semplice: se qualcuno pensa di costruire l’alternativa con il pallottoliere è fuori strada. Se la questione è associare forze centriste, allora è dal programma che bisogna ripartire. E dal programma vuole ripartire Ernesto Maria Ruffini, redivivo alla politica qualche ora dopo la disfatta referendaria. Trattandosi di un tardo prodotto Dc, vorrà pur dire qualcosa.

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