Eccomi allora a scrivere del Paese, anzi della Nation che mi ha generato. Il doppio turno elettorale ha mandato in testa coda la Costituzione della Quinta Repubblica, edificio monumentale voluto da Charles De Gaulle e progettato per lui dal silenzioso e geniale Michel Debré nel lontano 1959, e aggiornato, con la legge elettorale doppioturnista, da Maurice Duverger, ideologo e suggeritore di François Mitterrand. Una quaterna di personalità in cui si rissume tutto lo spirito della Francia repubblicana. Che cosa è successo ieri nell’Exagon, come i francesi amano chiamare familiarmente la loro patria? È accaduto qualcosa di impensabile o, se pensato, certo non nella dimensione vista ieri sera. La vittoria data per assodata di Marine Le Pen dopo il primo turno, si è trasformata per lei in un rovinoso rovescio elettorale. Certo, ha accresciuto oltre misura la rappresentanza parlamentare del Rassemblement nationale, ma la conquista del governo è diventata un miraggio. Dopo 15 anni di assalti, ora all’Eliseo ora a Palais Matignon, viene il sospetto che la parabola politica della dinastia Le Pen abbia imboccato un’irreversibile fase discendente.
Il Nouveau Front Populaire, cartello elettorale messo su in tutta fretta la sera del 30 giugno, si è affermato come prima forza politica. Ripetiamo: cartello elettorale e non coalizione di governo. Perché non hanno un programma comune, non ne hanno avuto il tempo e, avendolo, difficilmente si sarebbero messi d’accordo i socialisti riformisti di Raphaël Glucksmann e il populista Jean-Luc Mélanchon della France Insoumise. Storie troppo diverse, troppo diversi i loro orizzonti culturali e, parlando della Francia, troppo diverso il loro esprit républicain. Mélanchon ha presentato la vittoria come una sconfitta di due avversari: Le Pen e Macron. Non in ordine di importanza, perché nella testa del tribuno antisemita e ammiratore di Putin probabilmente Macron viene prima di Le Pen come bersaglio del suo rancore politico.
La nascita del prossimo governo passa necessariamente attraverso la rottura del Fronte. Le cose sono messe così: metà dei circa 150 eletti di Ensemble-Renew sono contrari ad alleanze con Mélanchon. Dunque nessuna maggioranza potrebbe nascere. I socialisti di Place publique, il partito rianimato da Glucksmann, sono combattuti all’idea di rompere il cartello elettorale temendo di essere per questo sottoposti a una logorante guerriglia parlamentare da parte di France Insoumise. Più di un problema hanno gli stessi Républicains, quelli che non hanno seguito il loro ex leader Eric Ciotti nell’alleanza con Le Pen. Entrare in una coalizione di centro-sinistra significa esporsi alle accuse quotidiane di tradimento da parte di Ciotti. Come si vede, per Macron si tratta di risolvere un’equazione ricca di molte incognite.
Allora sarà importante capire quanto tempo impiegherà per mettere su un esecutivo che non sia un accrocchio, ma tale da presentarsi in Assemblea con quel minimo di autorevolezza per affrontare una navigazione quanto meno burrascosa, se tutto fila per il verso giusto.
Il progetto di riforma delle pensioni è già stato accantonato dal premier uscente Attal. Accantonato non significa cancellato perché la questione è decisiva per l’equilibrio dei conti pubblici dal momento che la Francia, al pari dell’Italia, è destinata all’apertura della procedura di infrazione per eccesso di deficit. Questo è solo uno dei nodi di politica sociale. Più impegnativa appare la quadratura del cerchio sulla politica estera. Mélenchon non ha mai fatto mistero del suo antisemitismo da lui esibito con una sfrontatezza ai limiti della beceraggine. E dà voce a un sentimento piuttosto molto diffuso nel popolo degli elettori di sinistra, molto più che nella destra xenofoba.
Per tacere dell’atteggiamento verso l’Ucraina. France Insoumise, al pari di Le Pen e Salvini, usa lo schermo dei negoziati di pace per mascherare un filo-putinismo senza riserve e a stento trattenuto dall’esibizione. Esattamente l’opposto di Macron, dei Républicains e dei socialisti. All’Assemblea nazionale sarà frequente assistere all’intesa Mélenchon-Le Pen sulla politica estera in chiave anti-occidentale, anti-Ucraina, antiamericanist e contro Israele.
È facile constatare che il quadro politico su cui Macron dovrà lavorare non è dei più semplici. A renderlo ancora più complesso è il rovesciamento dei rapporti di forza, un cambio di paradigma che minaccia lo spirito stesso della Quinta Repubblica. De Gaulle aveva immaginato il suo funzionamento come risultante dell’elezione diretta del presidente della Repubblica il quale trascinava con sé una maggioranza parlamentare. Con una piccola crepa, apparsa la prima volta nel 1986, quando la sfasatura temporale fra il presidente eletto ogni 7 anni e l’Assemblea ogni 5, diede vita alla prima cohabitation, con Mitterrand presidente costretto a incaricare il gollista Chirac, vincitore delle elezioni legislative. In quel caso si manifestò per la prima volta la necessità di ridefinire lo spazio dei poteri presidenziali rispetto a quelli di un premier di schieramento diverso. Non si pensò di mettere mano alla Costituzione, semplicemente si trovò un gentleman agreement come poteva accadere fra personalità forti e autorevoli, investite, sia pure con idee diverse, dello stesso spirito repubblicano. La politica estera e di difesa rimaneva nelle competenze dell’Eliseo, tutte le altre erano attribuite a Palais Matignon.
I tempi, e soprattutto i protagonisti, sono oggi molto diversi da allora. Lo spirito repubblicano è una presenza residuale in molti degli attori, Le Pen e Mélanchon sono animati da uno spirito di rivincita nei confronti di Macron e forse della loro stessa vita dal momento che inseguono da anni e senza successo la conquista del potere.
Il voto di ieri era atteso in Europa e non solo. La reazione più veloce, e violenta nei toni, è arrivata da Mosca. Dal ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, sono venute parole di fuoco contro un voto che avrebbe “manipolato la volontà degli elettori”. Anche se l’accusa suscita ilarità, poiché viene da un esponente della più grande fabbrica di menzogne della storia, essa rivela più di ogni analisi che il vero sconfitto del voto non è a Parigi ma a Mosca.
Che cosa dice a noi la sorpresa francese? Meglio, che cosa dice al governo italiano e alla sua maggioranza? A Salvini, per esempio, ha suggerito di accelerare sulla via della radicalizzazione della Lega. Braccia aperte a Le Pen per accoglierla nel gruppo dei Patrioti, con Orbán e altri ambasciatori di Putin in Europa. È alla presidente Meloni che invece procura qualche grattacapo. Meloni viene a trovarsi davanti al bivio e imboccare una strada o l’altra può determinare la sua fortuna politica come il sul rovescio. Deve affrontare la concorrenza che Salvini le porta da destra e, nello stesso tempo, non può spezzare il filo, anche se assottigliato, che la tiene legata agli equilibri europei e quindi all’elezione di von der Leyen il prossimo 18 luglio. È un esercizio di equilibrismo che richiede doti straordinarie e Meloni dovrà dare il meglio di sé per non trovarsi in mezzo al guado. Da Londra a Parigi, le democrazie hanno mostrato una capacità di reazione alle sfide populismo tale da sorprendere i loro stessi avversari. Questa è l’occasione per Meloni di mettere radici solide nel campo giusto della storia.
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