Giorgia Meloni ha 18 giorni per un corso rapido di grammatica europea: la notizia è che può farcela

Per lei le uniche insidie sono i “fratellini” di Forza Italia e Matteo Salvini, di nuovo arrembante e pronto a unirsi a Orbán, Babis, Morawiecki e a chiunque voglia demolire l’Unione europea per conto di Putin. In Europa vale il vecchio adagio di Enrico Cuccia: i voti si pesano, non si contano. Popolari, socialisti e liberali pesano per la loro storia: hanno fatto l’Europa quando la destra italiana non voleva saperne. La grande lezione di Berlusconi: mandò commissari Bonino e Monti e così bucò il muro di diffidenza verso Forza Italia

Jean-François Paul de Gondi
6 Min di lettura

     È una questione anche di grammatica politica. Per fare un esempio: in Germania, il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz ha perso di brutto le elezioni, la Cdu le ha vinte a mani basse e Alternative für Deutschland è cresciuta fino a diventare la seconda forza del Paese. Secondo la logica politica italiana, la Cdu di von der Leyen e Friedrich Merz non potrebbe ignorare la forza di AfD e dovrebbe coinvolgerla nella designazione dei commissari. Circostanza mai considerata dalla Cdu o dal cancelliere: AfD resta confinata nel ghetto degli appestati e nessun partito tedesco ha intenzione di tirarla fuori.

     Il “caminetto” fra Scholz, Macron e il “popolare” polacco Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo, che tanto ha irritato Giorgia Meloni non è stato un complotto contro l’Italia anche se così è stato percepito da Meloni e  dalla sua maggioranza. È stato un vertice fra le forze dalla cui unione esce comunque confermata la “maggioranzaUrsula”, anche se più risicata nei numeri. È stato, soprattutto, un incontro fra leader che condividono non da oggi un comune orizzonte politico e istituzionale, i loro partiti lavorano da sempre per potenziare le istituzioni europee e hanno in comune il traguardo di un’Europa federale. Condividono un grande obiettivo, e ciascuno di essi vi lavora senza tradire la propria parte politica.

     L’errore grammaticale di Giorgia Meloni è tutto qui: aver creduto, o anche solo ipotizzato, che a Bruxelles potesse valere lo schema maggioranza/opposizione, come per il Parlamento italiano. Quando Meloni entra in un vertice europeo indossa una doppia veste, di presidente del Consiglio di un Paese fondatore e di leader dell’Ecr, il gruppo dei Conservstori al cui interno si trova un po’ di tutto, da anti-europeisti di diversa origine e provenienza, a filo-putiniani e qualche atlantista più o meno scettico oltre che fieri avversari di ogni aiuto all’Ucraina.

     Meloni si è risentita con i colleghi europei, ritenendo di aver subito un torto più o meno ingiurioso che ha ferito l’Italia più della sua stessa persona. Non è così, si sono affrettati a precisare Macron, Tusk, Scholz e il premier greco del Ppe, Kyriakos Mītsotakīs, vero mediatore con Meloni. Quel “caminetto” che ha deciso le cosiddette “top jobs”, cioè le cariche istituzionali importanti, è stato la semplice conseguenza di quelle affinità politico-istituzionali su cui popolari, socialisti e liberali viaggiano dalla nascita prima della CEE e poi dell’Unione europea.

     Giorgia Meloni ha 18 giorni davanti a sé per sciogliere un nodo complicato. Sa, intanto, che Viktor Orbán, insieme all’ex premier ceco Babis e all’ex premier polacco Morawiecki, e con loro un sempre più radicalizzato Matteo Salvini, si preparano a dar vita a un nuovo gruppo di netta impronta nazionalista e filo-putiniana al Parlamento europeo. Una tale circostanza potrebbe alleggerire il gruppo dei Conservatori di qualche unità ma, insieme, rimuovere ogni residua ambiguità sulla linea politica. Per Meloni si tratta, a quel punto, di calarsi pienamente nel ruolo di presidente del Consiglio senza che sia più motivo di imbarazzo anche il ruolo di presidente dei Conservatori, un gruppo reso spendibile sul piano politico grazie alla “bonifica” in chiave europeista con l’uscita dei sovranisti.

     All’Italia, non ai Conservatori o ai socialisti o ai popolari, tocca un portafoglio adeguato al rango del nostro Paese. Comeè sempre stato, f8no all’ultimo incarico a Paolo Gentiloni. Una curiosità, sulla quale Meloni avrà già avuto modo di riflettere. Quando, nel1994, Silvio Berlusconi, fresco presidente del Consiglio, si trovò ad affrontare la nomina dei commissari, affrontò la questione con l’intelligenza politica che tutti, post mortem, gli riconoscono. Sapeva di essere un nuovo arrivato sulla scena politica e aveva percepito fin troppo chiaramente il clima di diffidenza delle cancellerie europee. L’idea felice, sua o di Gianni Letta, fu di pescare i nomi dei commissari fuori dalle forze di centrodestra. Spedì a Bruxelles Emma Bonino e Mario Monti. E fu soltanto per l’ostilità degli allora Ds che non poté investire Giorgio Napolitano. L’intelligenza berlusconiana, cioè del leader che sapeva farsi concavo e convesso, demolì in pochi mesi la diffidenza europea. Aveva messo quel tocco di spirito bipartisan o di esprit républicain per cui rese impossibile il rifiuto degli altri governi. Meloni ha di che riflettere. Quello che è certo è la possibilità per lei di ottenere il riconoscimento che si deve all’Italia. Può farcela, usando la grammatica europea senza le inflessioni dialettali.

© Riproduzione riservata

Condividi questo Articolo