L’emorragia è appena cominciata. I liberali e i riformisti sono messi ai margini, i cattolici in evidente difficoltà. Renzi: “Il Pd perderà dei pezzi”
“Chi sarà il prossimo? Non lo so. Ci sarà un prossimo? Sì. Il Pd perderà dei pezzi. Dentro il Pd c’è una dinamica oggettiva. Non sto facendo colazioni per lavorare in questo senso. Ma è evidente che ci saranno altri arrivi”. L’ineffabile Matteo Renzi non ha usato toni trionfalistici nell’annunciare il passaggio di Enrico Borghi al gruppo centrista, anche perché il Terzo Polo non gode di buonissima salute politica dopo la batosta elettorale in Friuli e le fragorose liti al vertice, ma è chiaro che l’uscita del primo parlamentare di peso è un segnale di disagio che la nuova segretaria farebbe bene a non sottovalutare. Anche se – lo ha sottolineato con una punta di veleno lo stesso Renzi – la Schlein se non resta fedele al mandato movimentista ricevuto dal popolo delle primarie rischia di perdere l’identità che ha voluto fortemente rimarcare nel suo primissimo scorcio di mandato. Borghi ha spiegato la sua scelta – “un’assunzione di responsabilità individuale” – facendosi interprete dei malumori percepiti incontrando militanti ed elettori preoccupati per la mutazione genetica del Pd.
Una deriva che sta spostando sempre più a sinistra il baricentro del partito, con la componente liberale e riformista messa ai margini nella segreteria e quella cattolica in evidente difficoltà per le esternazioni della Schlein in favore della maternità surrogata e non solo. L’ex presidente dei senatori Marcucci, anch’egli transfuga ma verso Renew Italia di Sandro Gozi, ha ricordato che il Pd nacque come partito di centrosinistra, e che l’idea vincente di Veltroni fu quella di tenere in equilibrio le culture socialdemocratiche con quelle popolari e liberaldemocratiche. “Se l’equilibrio crolla, crolla anche il Pd, almeno per come lo abbiamo conosciuto in questi anni”. E in effetti della vocazione maggioritaria non c’è più traccia in un partito che sembra sempre più rinchiuso in una ridotta identitaria: è lampante che la Schlein sta portando il Pd su sponde opposte a quelle di Renzi, un processo iniziato da tempo, basti ricordare che un anno fa D’Alema suscitò un vespaio di polemiche quando disse che il Pd “era guarito dalla malattia renziana” e quindi tornato politicamente agibile per il rientro degli scissionisti di Articolo uno.
Ora, dopo la svolta delle primarie, il termine “malattia” usato da D’Alema per definire l’unica stagione –quella renziana, appunto – in cui il Pd cercò di dare un’impronta davvero riformista ai suoi governi, diventa perfettamente compatibile con la nuova linea tutta spostata a sinistra, anche se declinata sempre più come un partito radicale di massa. Ma alla Ditta tutto sommato questo interessa poco: l’importante era approfittare delle contraddizioni che hanno contraddistinto il Pd targato Letta, e rompere – impedendo la vittoria di Bonaccini – ogni residuo legame con la stagione renziana, inaugurandone una di lotta senza governo ed emarginando definitivamente l’ala riformista, ridotta ormai a corpo estraneo, e non è certo la presidenza concessa al governatore emiliano a saldare questa irrimediabile frattura politica. L’emorragia è appena cominciata.
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